UMBERTO TI. "Alaska"
(2019 )
Il cantautore padovano Umberto Ti., dopo l’EP “Cielo coperto”, pubblica l’album “Alaska”, dove l’approccio acustico da tipico cantautore indie malinconico, con testi un po’ amari e pungenti, è arricchito da sonorità rock alternative più elettriche ed aggressive, che mescolano le coordinate in maniera coesa. La chitarra è graffiante come le spine del testo di “Bugie”: “Sono caduto su una pianta di rovi, e adesso ho mille spine piantate sui piedi. Mi sono tolto le bende dagli occhi, ma non è il sole che mi fa male, sono tutte le bugie che mi racconti”. C’è uso abbondante dello slide per ottenere dalle corde un effetto psichedelico. Sono diffusi tanti ricordi, come in “Kids”: “Ti ricordi quando facevamo l'amore dentro la roulotte di tuo padre?”. Mentre la batteria ribatte sul timpano, i suoni formano un tessuto soffice, dove far rievocare dettagli come le “scarpe da tennis” tutte sporche. Il viaggio nel passato continua in “Solo un uomo”, su una vecchia relazione: “Conosci bene quel divano nuovo, erano gli anni Novanta, ci amavamo così tanto”. Anni Novanta è anche il suono, con quella chitarra elettrica abrasiva sullo sfondo della ritmica acustica, così flemmatico come in “Principianti”, dove sopra un riff da Cranberries, Umberto si agita: “Fai la valigia più in fretta possibile, faremo l’amore come fosse per sempre”. Poi raccoglie dati sensoriali: “Con il cuore intossicato, mi lavo le mani ma resta ancora l’odore della tua pelle”. “Pelle” e “fare l’amore” sono ricorrenti in questo album carnale, ma un po’ d’astio emerge nella melanconica “Non importa”: “Proprio come una ladra, rubi tutto quello che puoi, lasci dei diamanti sul tavolo, un maglione verde smeraldo. Ma non importa se fuori c’è il temporale, non importa se stiamo ancora male, non importa se la gente continua a guardare, non importa se abbiamo ancora fame”. Con “Domenica” le parole si ispirano ancora alla sofferenza, con invenzioni dolorose ma artistiche, sul grigio sfondo urbano patavino: “Mi hai ficcato le dita dentro l’anima (…) Queste scie di aeroplani che si incrociano nel cielo, come vecchie ferite inflitte alla memoria. Ho capito che anche il dolore può avere un po' di sapore, così ho chiuso gli occhi e ti ho trovata alla fermata del tram”. La musica per i primi due minuti resta sospesa su arpeggi puliti, poi l’overdrive deflagra, in maniera intensa. La titletrack “Alaska” entra nel leit motiv dell’album, questa sofferta freddezza raggiunta nei sentimenti, con nostalgia per quando erano più caldi ed osservati con occhi più ingenui: “Ho la faccia sporca di dubbi, faccio a pugni con la mia ombra, siamo come coriandoli bagnati per terra, dopo una festa”. La solitudine e il desiderio continuano ad emergere in “Isolati” (“Sento ancora il profumo del tuo corpo nascosto”), ma ancor di più in “Motel”, dove si entra a descrivere minuziosamente l’albergo, perfino “la macchina del ghiaccio rotta”, oltre che ovviamente il “letto sfatto”. La funzione del motel non è solo quella dell’alcova, ma anche quella di nascondiglio: “E mentre fuori la gente ci starà cercando, noi affoghiamo dentro queste quattro mura, fuori dal motel ti aspetta lei, ha in mano un sacchetto pieno di speranza, è tutta la notte che piange da sola sotto questa pioggia sporca”. Sulla pioggia sporca si conclude l’album, e non poteva essere diversamente, portando un elemento tipico del freddo padovano che ci accomuna all’atmosfera londinese, che partorisce coordinate musicali simili. (Gilberto Ongaro)