recensioni dischi
   torna all'elenco


MASSIMO VOLUME  "Il nuotatore"
   (2019 )

Conosco Luca, del quale ho già più volte parlato su queste pagine, fin dal secondo anno di asilo: fanno quarantatré anni, mica lapislazzuli per dirla con il compianto Andrea G. Pinketts.

Ci frequentiamo da una vita e quando ci vediamo parliamo solo di musica; le nostre figlie – incredibile - studiano oggi nella stessa scuola media che ci vide compagni di classe eoni fa. E anche di questo avevo già scritto.

Ciò che di Luca non vi avevo ancora detto è che lui è il più grande fan – vivente o no – dei Massimo Volume. Non che io li conosca tutti, i fan dei Massimo Volume: ma so con certezza che non ne può esistere nemmeno uno più fan di lui. Fan, poi: appassionato, studioso, esegeta. Come tipo, assomiglia pure vagamente a Emidio Clementi.

E i Massimo Volume? Io ci ho sempre girato intorno. E’ stato Luca a tirarmi dentro, o forse mi ci sono fatto trascinare io, perchè mi andava di conoscere meglio l’oggetto di un altrui folle amore, come per comprenderne il perchè. E Luca con me ha avuto pazienza, ha insistito sì, ma con garbo e misura: ha spiegato, analizzato, sviscerato, puntualizzato. E qualcosa sulla vita alla fine l’ho capita anch’io, grazie a Luca.

Sulla vita: diciamo sui Massimo Volume, che reputo oggi il più grande act (si dice così, no?) italiano di sempre, insieme ai CCCP di Ferretti&Zamboni. Puro genio, in ambo i casi.

Ma mentre Ferretti&Zamboni hanno agito da precursori, gente avanti di vent’anni su tutto e tutti, Clementi&soci hanno sondato, occupato, colonizzato e consolidato in solitudine una nicchia al confine tra musica, suggestioni cinematografiche e letteratura alla quale ogni categorizzazione sta stretta, da sempre, tanto che nel loro caso non ha neppure senso parlare di idee fondanti o lungimiranti: i Massimo Volume esistono fuori dal tempo, dalle mode, dai generi.

Non hanno genitori, non hanno figli: decreteranno sempre il trionfo dell’unicità.

Il disco dei Massimo Volume che Luca ama di più è “Lungo i bordi”, il loro secondo, anno di grazia 1995. Abbiamo discusso a lungo, una sera, sulla graduatoria di gradimento – la sua e la mia – degli album pubblicati dal gruppo, e su una sola cosa ci siamo trovati a concordare: “Club Privè”, temporaneo canto del cigno datato 1999, è ultimo nelle nostre personali classifiche, sebbene – anche su questo convergevamo – abbia ben quattro pezzi (i primi tre e l’ultimo, per la cronaca) che meritano di figurare nell’olimpo dei loro brani migliori.

Il mio disco preferito dei Massimo Volume per distacco sugli altri è “Cattive abitudini”: il cavallo di ritorno che nessuno aspettava più, o che forse tutti aspettavano dopo il live del 2008. Lo amo in ogni centimetro, perchè sa di disco definitivo: come se Mimì, Vittoria ed Egle – l’onnipresente Stefano Pilia completava il quartetto - si fossero scavati dentro, poi guardati in faccia ed avessero deciso di ficcare a forza in quel contenitore tutto ciò che avevano da dire dopo il lungo addio. Non si sa mai, nel caso fosse davvero l’atto definitivo.

Ma così non fu. Tre anni più tardi, con la stessa formazione della rentrée, arriva “Aspettando i barbari”, che inizia con tre pezzi pazzeschi e poi – forse, ma Luca non è d’accordo – si perde un po’. Smarrisce profondità. Non colpisce. Anzi, siamo buoni: colpisce meno. Il ritratto di Vic Chesnutt non è quello che avrei voluto ammirare, lo confesso. E fino alla fine la sensazione è quella di un disco meno ispirato. Sempre enorme, sia chiaro: ma non così incisivo, intenso, vivido. Il punto? Non vedo le storie, non vedo i personaggi. Li intravedo da lontano, e non è ciò cui ero abituato. Frange miopi e revisioniste della critica ora corrono ai ripari e lo incensano, e va benissimo così, la devono pagare cara – masnada di fanfaroni! - per non avere cantato degnamente le lodi dei Massimo Volume quando era il momento.

Altri cinque anni sono passati, ho perso il conto dei progetti ai quali Stefano Pilia ha preso parte. Ho seguito Mimì nel duo Sorge, nella meravigliosa avventura di Notturno Americano con Nuccini e Reverberi, nei quartetti di Eliot.

Ecco: ciò che dà forza alla narrazione di Mimì è proprio la possibilità che ti offre di accompagnare immagini ai suoi testi. Nella mente e dietro gli occhi, scorrono film inesistenti che la sua parola evoca. Emanuel Carnevali su quella ribalta traballante di Milwaukee lo vedi. Senti le assi scricchiolare. Tocchi la sua allucinata disperazione.

Ecco: le storie di Mimì nascono da personaggi, vite altrui, situazioni, scene del crimine che ispirano un racconto. “Il Nuotatore” fa un passo di lato, come lo fece “Club privè” nel tentativo di cantare suggerito da Manuel Agnelli. Vuole essere introspettivo, cambia punto di osservazione: guarda fuori, ma poco. Guarda dentro, ma c’è da domandarsi – uh, per questa ci vuole fegato! - se lo sappia fare. Mimì non è tagliato per l’intimismo tout court: deve legarsi a qualcosa, ad un’esperienza, ad una ferita, ad un ricordo sanguinoso, ad una sconfitta patita, ad una perdita, magari ad un dolore, ad un’emozione color rosso fuoco, deve tradurre tutto ciò in una storia. Mimì non è fatto per le sfumature di grigio, non per scavare nella psiche, almeno non senza il conforto di una rete da trapezista là sotto.

Ecco: questo è ciò che non filtrava in una buona metà di “Aspettando i barbari” e nella quasi totalità de “Il Nuotatore”. Che è un film senza immagini. Ha soltanto il sonoro. E quando Mimì scrive non avendo in mente il film, il risultato è strano. Non deludente, giammai impoverito: strano. Forse è soltanto una nuova via, certo non un passo falso. Ma ogni riascolto è fatica, non desiderio appagato: “Il Nuotatore” l’ho riassaggiato almeno una decina di volte per cercarne il tesoro nascosto, ed ha i suoi atout, ci mancherebbe.

Ha quattro pezzi che svettano su tutti, ma uno solo lo inserirei nella bacheca delle memorabilia. Dei quattro, uno è davvero un classico da Massimo Volume: teso, secco, diretto, racconta per flashback, ci ficca a forza qualcosa di emotivamente problematico e te lo fa passare come un pezzo della storia che narra.

Si intitola “La ditta di acqua minerale”: quando ho detto a Luca che l’album conteneva un pezzo con quel titolo, mi ha risposto che non vedeva l’ora di ascoltare proprio quello. “Promette bene”, ha aggiunto. Sesto senso: aveva ragione, manco a dirlo. E’ tra i brani migliori, insieme ad “Una voce a Orlando” che apre il disco: accoppiata che ti fa sperare in qualcosa di grande, ma poi, boh, chissà cosa si rompe o cosa tarda ad esplodere. C’è la title-track, che è un altro ottimo pezzo, l’ultimo avamposto prima che torni “Fred” – ad un passo che pare richiamare le atmosfere del Notturno Americano - a risvegliare qualcosa con il suo racconto terso come un bel cielo blu d’inverno.

Probabile allora che “Il Nuotatore” sia l’ennesimo capolavoro incensato e benedetto, compreso il montaggio analogico – ah! – e l’occhio della madre: il problema – tutto mio – è che questa volta non mi è arrivato.

Nel frattempo ho letto ovunque entusiastiche review cervellotiche rigonfie di analisi metatestuali, ho letto di una crescita consolidata ed ho letto pure di una “rinvigorita tensione”. Mi spiace, non l’ho trovata nella mia ricerca attenta e puntigliosa, disperata a tratti. Ecco, “rinvigorita tensione” proprio no, abbiate pazienza: se c’è una cosa che manca ne “Il Nuotatore” è esattamente questa. Anzi: è un disco terribilmente introspettivo, compresso, compassato, una rinuncia ad esibire muscoli e nervi. Sceglie un taglio monocorde e tinte sbiadite, è impregnato di una sorda riflessività che si fa intricata, complessa, ben poco immediata, ammesso che immediati i Massimo Volume siano mai stati.

E allora pezzi come “Amica prudenza” o “Nostra signora del caso” sacrificano tutto il possibile: la ferocia nuda del testo, la nevrosi della musica, la frustata del suono. Ciò che resta è un viaggio in silenzio. Attorno, un panorama spoglio, desolato. In alto, grigiore.

Quanta distanza separa “Stanze” da “Il nuotatore”? Ventisei anni, una vita. Manca l’urgenza, ovvio, a quella residua ha dato fuoco e fondo “Cattive abitudini”, gli anni passano per tutti e forse – caro Francuzzo – i desideri invecchiano con l’età, altro che.

Intanto, Luca lo ha comprato, il cd. Lui che in vita sua di dischi ne ha comprati ben pochi, agli eroi concede il privilegio, l’onore, il trionfo. A prescindere. A scatola chiusa, perché gli eroi meritano questo.

E allora scrivo a Luca su Whatsapp, e va esattamente così:

Manuel: “Dimmi cosa ne pensi, sto scrivendoci qualcosa, pubblichiamo settimana prossima”

Luca: “Devi darmi qualche giorno. Questo disco è una trasfusione: se non mi dai tempo non capisco se fa effetto”

due giorni dopo, sette del mattino

L. “Hanno voluto ribadire di essere oltre ogni moda, estremizzando la loro cifra stilistica per rivolgersi ad un nucleo di fan più compatto. O forse solo a sé stessi”

M. “La seconda che hai detto”

L. “Infatti. E’ il mio punto di vista attuale”

nove ore più tardi

L. “Mi sta piacendo di più. Devi sentirlo come sottofondo. So che è un controsenso, parlando dei Massimo Volume, ma funziona. E’ joyciano. Non devi fermarti sui particolari, ma scorrere ed aspettare che qualcosa rimanga nella testa”

M. “Troppa fatica: è più facile ammettere semplicemente che questo disco non è così attraente”

L. “Non è un gran disco, ma prima mi sembrava più brutto”

M. “Il direttore non ci fa dare i voti, ma tradotto sarebbe un sei e mezzo al massimo”

L. “Sono abbastanza d’accordo”

Segue una breve discussione su “Aspettando i barbari”, su “Fuoco fatuo” e sulla mancanza di Stefano Pilia.

Nessuno dei folgorati che si profondono in salamelecchi innodici discorrendo de “Il Nuotatore” conosce Luca, che sui Massimo Volume – sia ben chiaro – non può sbagliare, a differenza del sottoscritto. E io mi fido di Luca.

Ecco, questo mi sento di dirvi: nel dubbio, lasciate perdere me, fidatevi di Luca.

Tutto qui. (Manuel Maverna)