recensioni dischi
   torna all'elenco


GIANMARIA SIMON  "Low fuel"
   (2019 )

Parliamo di un artista controcorrente, Gianmaria Simon: uno di quelli che non han paura di lasciare la strada vecchia per quella nuova. Anzi! Preferisce solcare polverose mulattiere sconnesse piuttosto che lucido catrame senza asperità, pur di rimettersi sempre in discussione e starsene sul fronte borderline. Con l’opera seconda “Low Fuel”, cala in tavola 10 carte “multilingue”, come fosse un poliglotta stilistico di cui andar fieri, poiché (va detto sùbito) l’album passa l’esame a testa alta. Il preludio di “Malestante” è all’apparenza tranquillo, però non tarderà ad esprimersi con risolutezza gitano-pop, mentre la title track “Low Fuel” è l’ideale benzina d’accompagnamento in autostrada, con una sgasata ritmica filo-ska che stuzzica ad affondare il piede a manetta e godersi i capelli al vento. “L’avventura” non sarà quella di Gianmaria, se saprà ogni volta rivestire ogni brano di vestiti differenti: come questa cover di Modugno rimodulata con serrato mood tex-mex che stimola sana frivolezza. L’acustica minimale ed i soavi violini di “Tramp steamer” fanno da sfondo ad una ballad dall’indubbio pathos, a ridosso di un immaginario falò western, contornato da un’angelico vocalizzo femminile. Invece, “Mi gusterò il peccato” è un pezzo che farebbe gola ai Negrita dell’epoca messicana, complice anche l’impostazione narrativa di Simon, che (in più di un’occasione) lambisce quella del celebre Pau. Cresciuto tra le Alpi Apuane, l’artista di Sarzana porta in sé parte di quei territori rocciosi, duri da scalfire, anche al cospetto di uno stillicidio erosivo, e Gianmaria, per osmosi, ne ricava linfa vitale per raccontare di duri aspetti di vita, con la spia rossa sempre accesa, per rifuggire le regole del conformismo e dei dettami imposti. Altro giro, altro cambio: ora, dal cilindro stradale, il Nostro estrae un ensamble folk dai contorni oriental-balcanici che ne riconfermano la poliedricità progettuale. Costruito su costante linearità ritmica, la forza di “La vita vien da sé” è nel riuscito parallelismo con una forbita lirica, mentre ne “Il blues dell’odio” c’è lo zampino del Bennato-style: non a caso, si ode l’armonica a bocca, atta a filtrare con una chiara invettiva, espressa con dosato eclettismo. A chiudere la lista c’è “Danza zoppa”, verace folk strumentale, condito con l’apporto della sola fisarmonica: tanto basta per far quadrare i conti con la qualità. Insomma, “Low Fuel” ci ha ribadito, attraverso 10 spie pop-rock, che viaggiare sulla macchina della vita, col pericolo di rimanere a secco, è indice di un’ardire sempre in bilico tra istinto e ragione, ma che… “riserva” (come contropartita) un libero arbitrio che non deve rendere conto a nessuno e che rifornisce, alquanto, il serbatoio dell’anima. (Max Casali)