recensioni dischi
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SUZANNE VEGA  "Solitude standing"
   (1987 )

Il coraggio dei timidi è proverbiale, così imprevedibile che spesso sfiora la temerarietà. Nei luccicanti anni ’80, infestati da dive e divette, automi da classifica nutriti dalle case discografiche come feroci polli d’allevamento, presentarsi in tono dimesso, cantando storie malinconiche con l’aiuto di una chitarra e poco più, a molti sarebbe sembrato puro autolesionismo. Per di più, da una ragazza di nome Suzanne Vega, cresciuta nei ghetti portoricani di New York, era logico attendersi un qualcosa tipo rap, o rock incazzato, comunque musica “tosta” e sanguigna. Ma basta un’occhiata alla copertina per rendersi conto che la parola “sanguigno” è estranea al mondo di Suzanne. Il suo viso sembra il ritratto dell’anemia, anche se poi questa sua apparente debolezza nasconde una tenace determinazione, quella con cui è riuscita ad imporre all’attenzione del mercato il suo suono scarno, da folksinger fuori tempo. Musicalmente si sente molto l’influenza della prima Joni Mitchell, quella acustica, mentre nei testi piuttosto che lo stile confidenziale e squisitamente femminile di trattare le vicende umane proprio di Zia Joni (alla quale, sia detto per inciso, tutte le cantautrici di ogni tempo devono qualcosa) prevale una visione abbastanza descrittiva degli aspetti della vita di tutti i giorni, con abbondanza di toni grigi e scialbi, al punto che qualche critico ha tirato fuori la brutta parola “minimalismo”, presa in prestito dalla politica. Ma sepolta sotto questa apparente calma piatta si muove la poesia, perché ci può essere poesia anche nei fatti e nei luoghi più banali. Per esempio nelle parole e gli sguardi che si incrociano in un caffè durante una colazione qualsiasi (“Tom’s Diner”), nei misteriosi rumori che arrivano dal piano di sopra, dove vive un bambino (“Luka”) e addirittura negli oggetti di casa che di notte si animano, riflettendo la vita delle persone (“Night Vision”). La solitudine è una specie di spettro, una silhouette nera in agguato presso la finestra, pronta a voltarsi se qualcuno entra (“Solitude Standing”). Per esprimere il suo strano “realismo visionario” Suzanne Vega si affida ad un filo di voce, fragile e così priva di slanci da rasentare più volte la monotonia, e soprattutto si affida a quella tipica economia di strumentazione musicale che ha sempre caratterizzato ogni folksinger che si rispetti, a partire dal più grande di tutti, il primo Bob Dylan. Gli ornamenti sono ridotti all’osso: c’è qualche cineseria di tastiere all’inizio di “Luka”, che è anche una delle poche ballate sostenute da una base ritmica apprezzabile, insieme a “Solitude Standing”, “In The Eye” e “Wooden Horse”. Per il resto, come è logico, dominano le chitarre acustiche, a volte con esiti molto piacevoli, come in “Ironbound/Fancy Poultry”, dal bel finale sfumato e ipnotico, e nei luminosi arpeggi di “Language”, amabile dissertazione sull’inutilità delle parole, basata però su bellissime parole, il che sembra contraddire ciò che la canzone vuole affermare. Economia di mezzi va bene, ma in “Tom’s Diner” si esagera: l’esile voce di Suzanne, che non è certo quella di Aretha Franklin, si espone in tutta la sua nudità, senza nemmeno il conforto di una chitarra. Un modo per dare più risalto al testo oppure una provocazione? Boh, comunque il risultato è tutt’altro che gradevole, e ha fatto bene quel tizio che qualche anno dopo ci ha piazzato sopra una base ritmica. Lo dice uno che di regola ritiene i “remix” inutili e stupidi, ma in questo caso la “Tom’s Diner” originale, così spoglia, era una vera e propria incitazione al remix, e inoltre chi ha fatto questa operazione (oltre a fare i dollari con poco sforzo) in un colpo solo ha rinnovato il successo della canzone e ha regalato una poesia al popolo delle discoteche, che non è abituato a godere di finezze simili. Comunque, al di là di questa macchia evidente e di qualche altra ballata tirata un po’ troppo per le lunghe, “Solitude Standing” resta un ottimo disco, un’oasi di quiete nel bel mezzo di un decennio già piuttosto rumoroso. (Luca "Grasshopper" Lapini)