recensioni dischi
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STARFRAMES  "Nicht vergessen"
   (2019 )

Un languore intriso di struggente romanticismo pervade ogni istante di questo prezioso album, piccolo prodigio capace di legare mestizia insinuante ad una trasognata, attraente melodiosità.

Insolito, eppure eccellente nella sua timida ostinazione, “Nicht vergessen” è il terzo atto nella discografia del quartetto napoletano Starframes, formatosi nel 2004 e qui finalmente al ritorno in pompa magna a lunga distanza dal precedente “Ethereal undergorund” (2011): pubblicato su BulbARt e Thinkbabymusic, “Nicht vergessen” è concepito come la trasposizione in musica dell’omonimo racconto, ambientato a Berlino ed incentrato sul personaggio di Friedrich Braun, scritto dal chitarrista e cantante Raphael Bramont, testo a sua volta liberamente ispirato al romanzo “Stasiland” di Anna Funder.

L’abilità della band consiste nel tradurre questa architettura in un’ora di musica soave, morbida e conciliante: ogni episodio conserva intatta una fiera indipendenza che ne fa creazione a sé stante, svincolata dal contesto cui comunque si lega. Protetta da un’atmosfera sempre ovattata, stilisticamente alle prese con lezioni ben assimilate di shoegaze, psichedelia accomodante e dream-pop congegnato con sapiente devozione, ciascuna canzone racchiude in sé i germi di una sensibilità raffinata e docile al servizio di una narrazione dal ricco potenziale evocativo ed immaginifico.

L’insieme gode di una invidiabile coesione, privo com’è di bruschi scarti o disomogeneità: mai aspro né spigoloso, conserva immutata una grazia levigata che ne avvolge le trame con sottile garbo ed un’eleganza eletta a tratto distintivo, un po’ l’equivalente – anche nelle sonorità prescelte – di quella recente meraviglia che è “Penelope, Sebastian” dei Winter Dies In June.

Tra echi di Belle And Sebastian (“Berlin is in love”), marcate suggestioni di DIIV (“Zimmerstrasse”, “Mutter”) e vestigia sparse di Cure e Psychedelic Furs si insinuano eteree arie strumentali affidate al pianoforte ed agli archi (“Ouverture”, “Prisoned”), ballate indolenti (“I am no one”) e sussulti anni ’80 (la disco di “Rising wall” o la saturazione di “1989”, fra U2 e Simple Minds), bozzetti sublimati da fattezze pop in un clima di estatico rapimento.

Il trittico conclusivo è un commiato sfuggente di dieci minuti, forse un cammino verso la luce, forse verso un muro di tenebra: la pulsione liquida di “One day”, il cadenzato arrancare in minore di “Amulet” e l’epitaffio amaro ed inquieto di “If I die today I will live tomorrow” dipingono l’ultima digradante sequenza di tinte tenui su una tela sfuggente, ricca di fascino e rara bellezza. (Manuel Maverna)