HELIUM HORSE FLY "Hollowed"
(2019 )
Helium Horse Fly sono una band indefinibile.
Quartetto belga originario di Liegi, ad un lustro dall’esordio si ripresentano su Dipole Experiment Records con i quarantasette minuti agonizzanti di “Hollowed”, disco di difficile ascolto, concettualmente complesso, prosciugato di sentimento e quasi del tutto deprivato di emotività.
Procede affidandosi alle dinamiche in un clima teso, plumbeo, incombente. Rinuncia alla ricerca del bello, sublimando una forma d’arte costruita per spingersi oltre, altrove.
Sei tracce, due delle quali superano abbondantemente i dieci minuti, segnano il percorso al contempo sinuoso e tortuoso di un’opera intensa, fosca, minacciosa.
La voce di Marie Billy è una spina nel fianco, una cesura tra beatitudine e fastidio: si contorce in sinistre modulazioni, avvolgendosi come una serpe sullo scheletro di armonie perverse sporcate da chitarre illeggibili. Insinuanti, mai violente, sature per sfizio più che per necessità, cercano strade percorribili in una selva oscura di languori, sommovimenti, dilatazioni: imperfezioni addestrate ad esiti mesmerizzanti.
In “Happiness” Marie pare quasi una Bjork narcotizzata che canta i Radiohead su una base meccanicamente identica a sé stessa fino all’impennata conclusiva, mentre nei quattordici minuti di “In a deathless spell” va in scena una drammatica pièce tripartita fra un abbozzo di melodia in apertura, una fase centrale che arranca catatonica e stralunata ed una velenosa intensità in cauda. Senza approdare assolutamente a nulla.
Gli otto minuti di “Algeny” si trascinano su echi dub dall’anima post-punk - i P.I.L. di “Metal Box”? - prima di essere risucchiati dalla deflagrazione finale. Improvvisa, bruciante: inutile, se mai esistesse una meta-utilità in una canzone. “Progeny” è post-rock strumentale dall’impianto circolare; gli undici minuti di “Monochrome” si aggirano anch’essi tra i meandri di un post-rock di prima generazione, qualcosa tra Rodan, June of ’44 e Mono, un’algida sequenza monocorde di figure diafane inanellate in un flusso inconcluso di accordi aperti. E’ un gorgo infinito di giri mai completati che dapprima esitano, poi tentano di impennarsi, quindi fingono di placarsi in un adagio allucinato sul quale il basso caracolla svagato, preludio ad una nuova ondata elettrica inghiottita nell’ennesimo epilogo lasciato in sospeso.
“Shelter” chiude su un arpeggio languido di due minuti e mezzo affidandosi – geniale – ad un’aria subdolamente cangiante che non suscita emozioni: non commozione, né malinconia o frustrazione, nostalgia o suggestione, evocazione di spettri o dolci ricordi, inquietudine, attesa, speranza. Nulla.
E allora? Stati di agitazione, e mai niente di più: non sempre una musica può fare, non c’è solo verse-chorus-verse-bridge-chorus. Ci sono dischi come questo, pressati fra gli angusti limiti imposti dalla durata, dalle convenzioni, da chissà quale mercato. Ma avulsi dalla durata, dalle convenzioni, da chissà quale mercato. Refrattari a qualsiasi schema, perfino a quello che prevede il compiacimento dell’uditorio.
Arte per l’arte. Cerebrale, magari: ma pura, rarefatta, distillata. Ipnosi, estraneità, rapimento. (Manuel Maverna)