NOSEXFOR "Nosexfor"
(2018 )
Bravi come loro, nell’ambito del power-rock underground, avevo sentito solo i Delorentos. Ora, fan breccia emozionale anche i vicentini Nosexfor: sono in due ma spaccano per dieci e proiettano sul mercato il tagliente esordio omonimo. Dieci lame tematiche sociali e sensate, che Severo Cardone e Davide Tonin contemplano con profonda maturità. Le cose da dire sarebbero molte ma, per effetto della loro prolificità, han dovuto selezionare la lista con presumibile tribolazione di scelta. Battiti di emo-grunge pulsano nel singolo “Pensavo fosse ok”, che dilata la sua invettiva con micidiale costanza, intrufolandosi nel lobo come una zecca. Buttate un occhio al video molto esplicativo: un paio di musicisti vestiti scuri , come fossero delle pecore nere in un mare di conformismo di palloncini gialli, a rappresentare quella maggioranza di gente che atterrisce all’idea di essere bollata come diversa e sceglie di omologarsi alla massa piuttosto che affermare la voglia di individualità. “Perdere la testa” ed “Eva” sono energy-ballads, le quali sfociano nell’espressività di un chorus accorato e graffiante, mentre con tagliente enfasi ironizzano sull’“America”, simbolo di sogno, di meta frustrante per tentare una svolta aprendo un chioschetto di hamburger, come se fosse un’utopia realizzarlo in terra-patria. Se pensate che, col solo ausilio di basso/batteria, la linea ritmica possa risultare deficitaria, i Nosexfor smentiscono prontamente con forgiature dall’impatto grintoso ed abrasivo, senza far mancare nulla sull’apparecchiata dell’opera. “Niente luci in centro” è una marcetta severa, col basso a tratti intermittente, in cui il Duo punteggia il disegno snobistico di bonificare i cuori delle città da brusii e rumori d’aggregazione, decretando il conseguente “de profundis” della socialità. Invece “Noi” è quel brano che Claudio Cecchetto vorrebbe far suo per girarlo ai suoi fedelissimi Finley. Precisando che “Bambino vudu” è un’anonima riproposizione di un pezzo di Hendrix che non riflette la brillantezza generale dell’album, il finale se lo giocano bene con “Quello che resta”, colma di energia da inglobare: chitarre ruggenti e drumming che fila con rullate, non tanto sostenute, ma con pelli tirate al punto giusto per sbattere in faccia un vibrante mood. Quindi, per il combo vicentino, un esordio dall’impeto convincente che, tra sussurri e grida di larghe intese, han saputo marchiare a fuoco ansie, timori ed aneliti di vita, lasciando un segno concreto, con la speranza che si riaffermi l’individualità: costi quel che costi. (Max Casali)