PUBLIC MEMORY "Demolition"
(2018 )
Oscuro e sinuoso, riecheggia nella palude stigia di “Demolition” (appena uscito per Felte Records) il fosco lamento di Robert Toher, producer newyorchese che sotto lo pseudonimo di Public Memory si ripresenta ad un anno di distanza dall’ep “Veil Of Counsel” e a due dal debutto di “Wuthering Drum”.
Con voce di perversa sirena androgina o di satiro effeminato, distorta ad arte da filtri che mascherano e fustigano un’elettronica infida, Toher imbastisce un’opera tetra ed ingannevole nella quale nulla sembra realmente accadere: “Demolition” vive sospeso e trattenuto nell’inquieta attesa dell’indefinibile, procedendo di lato per spostamenti infinitesimali in un clima di sorda angoscia che rimane ad aleggiare latente, mai deflagrando.
Album fuorviante che confonde con trame melodiose inghiottite in un gorgo sì attraente, ma sottilmente insidioso, “Demolition” vive dello spiazzante gorgheggiare femmineo di Toher, in realtà soltanto un uomo che sfregia e snatura sé stesso protetto da una coltre di deformazioni, field recordings, sovraincisioni, strati di musica malaticcia ed agonizzante percorsa da una soavità falsa e stridente.
Il sopravvento lo prende sempre e comunque quell’algido ritmo sintetico che funge da trait d’union mentre lascia sullo sfondo testi a stento intelligibili, qualcosa tra i Portishead e i Cocteau Twins, ma senza il fascino morboso dei primi nè la vocazione dream-pop dei secondi.
Ambiguo fin dall’immagine sfuocata di copertina, “Demolition” non smarrisce mai la propria esplicita inclinazione ad una distante freddezza calcolata. Esordisce con il beat ossessivo di “The Line”, si libra su un’armonia melodrammatica à la Marc Almond in “Mercy”, gioca con le stonature nella nenia diabolica di “Falsetto” e nella lenta cadenza scordata di “Redeemer”, quasi gli ultimi Japan; in “Red rainbow” la voce da oltretomba è corretta da una sinistra aria demodè, come un brano degli anni trenta in salsa contemporanea, mentre “Aegis” è lasciva e strisciante e “Doorstep” si agita su un riff cupo ed una ritmica serrata, preludio alla lunga chiusa di “Trick Of The Light”, commiato che naufraga nell’ennesima dilatazione sbilenca su qualche nota slegata di piano elettrico.
E’ tutto un trucco, una mascherata che si ripete per otto tracce, illusoria e lugubre. Lo fa ricorrendo ad echi lontani, tropicalismi inconsistenti, minuscole increspature e pulsioni robotiche, lasciando sottopelle una piccola paura malsana di qualcosa che non sapresti definire. (Manuel Maverna)