recensioni dischi
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NEW ADVENTURES IN LO-FI  "Indigo"
   (2018 )

Dischi come questo sono come la coperta di Linus: riparano, confortano, rincuorano. E ti portano via per un po’. Esistono, e tanto basta. Sono un rifugio sicuro, piccole oasi dove trovare l’acqua che serve, al resto penseremo poi.
Penseremo a novità sconvolgenti, a qualche next-big-thing che non arriva mai, alla musica del prossimo millennio e via di seguito: alla fine torneremo sempre a casa, ad album ben confezionati proprio come “Indigo”, secondo lavoro per il trio torinese New Adventures In Lo-Fi, nove tracce che di italiano non possiedono assolutamente nulla, orientate oltreoceano con ferrea decisione e nessun ripensamento.
Imperniato su una scrittura che va dritta al punto senza divagare né azzardare, arrangiato come si conviene e sontuosamente co-prodotto dal pool di etichette Dotto/Dreamingorilla/Floppy Dischi/E’ Un Brutto Posto Dove Vivere, “Indigo” declina l’abc dell’emo-core in svariate fogge che digradano in anse pacificate, alternando strati di chitarrismo introverso e lunatico a dilatate tentazioni post-rock.
Inseguendo tempi spezzati che ricordano atmosfere à la Cloud Nothings con correzioni math (l’andatura claudicante di “Collide”), i tre placano bruciante urgenza e nervose aritmie in episodi marcati da una indolente melanconia, sempre sorretta da trame melodiose e da tessiture capaci di esaltarne le armonie sfuggenti.
“Breakdown” è così una ballata ciondolante pervasa da un’aura diafana ed inafferrabile che la accosta a certe atmosfere dei DIIV, mentre “Catch-22” gira pigramente al rallentatore a passo psych: privo di clamore o virulenza, “Indigo” dispensa tutto il suo campionario di fremente mestizia, assecondato da accordature aperte, dal canto cangiante ma composto di Enrico Viarengo, dai ricami ondivaghi della chitarra, da saltuari ritornelli che non possono non rievocare vestigia di Sunny Day Real Estate (l’opener “Fault”, tre minuti di rara perfezione) o di Jimmy Eat World (“Jellyfish”).
“Indigo” ha perfino qualcosa dei Pavement nel taglio vagamente sospeso di “Neglected”, che chiude l’album in un chorus sbilenco innestato su un incedere zoppicante; o degli Slint, nei cinque minuti esitanti di “Pitcairn Blues”; o addirittura dei Jane’s Addiction più morbidi nella lenta cadenza percussiva di “Anarchist Canine”: è un disco che si aggrappa di continuo ad ascendenze e rimandi, ma ne trae qualcosa di personale, una pungente afflizione che meravigliosamente si addice alla sua indole. (Manuel Maverna)