LA NOTTE DELLE STREGHE "Klondike"
(2018 )
Mi dispiace, ma stavolta proprio non sono d’accordo.
Scorrendo le note che presentano “Klondike”, delizioso album del ferrarese Marco Degli Esposti sotto lo pseudonimo La Notte Delle Streghe, leggo: “il disco pone al centro del suo discorso la canzone con le sue parole: proprio per questo la musica risulta scarna”.
Eh, no: dissento, con forza.
Perchè di musica in “Klondike” ce n’è moltissima, e per nulla scarna.
Certo, grazie anche agli strumentisti che hanno suonato con Marco (Elena Pagliani al basso, Diego Mantovani alla batteria e Antonette Goroch alla voce); ma soprattutto grazie alla centralità che ne fa elemento essenziale, affatto secondario rispetto al dilagare di parole che pure ne sommerge le storie compostamente dimesse, dai sentori di Max Gazzè nella mesta apertura in minore di “Damasco” alle suggestioni branduardiane serpeggianti nel valzer storto di “WAR notturno”.
E’ musica complementare, mai accessoria, non un inutile orpello al servizio dell’ennesimo peccato di verbosità; si lascia magistralmente declinare in un perfetto connubio di scrittura ed arrangiamento, dinamiche e suoni, incastrata fra le parole come forse soltanto in Riccardo Sinigallia, Jacopo Incani o Emiliano Merlin (unòrsominòre) mi è capitato di sentire di recente.
E’ proprio la musica a conferire a “Il Silenzio Delle Balene” quella frenesia pulsante ed incombente che ne fa statuaria confessione strozzata e crescendo emotivo stordente; e non è semplice accompagnamento quello che avvolge “Rio Nero” sulla cadenza martellante che la sorregge prima e la sventra poi in una nera onda di distorsione, frastuono condotto altrove da una frase di chitarra trasognata e lontana.
Su testi che grondano disillusione aleggia un senso pregnante di sconfitta; soprattutto, una sostanziale assenza di redenzione ed una patina di rassegnato sconforto che pare non concedersi speranze residue, se non nel miraggio di una nuova meta da affrontare, un viaggio verso l’ignoto, una ricerca indefinita di qualcosa. Sono immagini di quotidiana ineluttabile desolazione, quadretti di nitido realismo che vivono di una cronica assenza di prospettiva, flashback di un eden smarrito ancora crepitante sotto la cenere.
“In questa pianura non c’è mai una discesa/ma son mille salite/perché in questa pianura quando è scesa la neve sono stata felice” canta Marco in “Campagna di Russia” mentre richiama brandelli di passata gioia e seppellisce sotto un ritornello straziante il tema della perdita del lavoro. Che ritorna – da un punto di osservazione intimo, in parte sociale, mai politico - nei sei minuti e mezzo di “Astronauta”, oceano di afflizione sulle ali di una lenta ballata elettrica che cita Cobain e gli Slint, arrendevole costernazione riassunta nel gelo di quel ripetuto “Oggi vado al funerale di un amico/ma tu aspettami che passo”.
La title-track arpeggia per sei minuti su un’aria bucolica, rilassata e campestre, ma ha dentro qualcosa che ti svuota, un abbecedario di ricordi, sensazioni, sfumature perdute: “sono i sogni d’infanzia e della tua economia/ quelli che non ti fan dormire e che non vanno più via/perché mia madre aveva un figlio/col mio stesso nome/perché mia madre aveva un figlio/col tuo stesso odore”. E la chiusura di “Canzone d’addio” ha un incedere quasi à la Massimo Bubola: è pigra, indolente, stanca. Una confessione introversa di nove minuti stesa su un giro in maggiore che procede con la misurata lentezza di un commiato, forse di una resa.
E’ l’epitaffio di un disco triste come milioni di altri: ma ne abbiamo bisogno. Nasce da un’anima ferita e da brusche oscillazioni emotive tra lampi di effimera esaltazione e ricadute nell’abisso di sempre.
A suon di musica. Tanta. Bellissima. (Manuel Maverna)