recensioni dischi
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GOD OF THE BASEMENT  "God Of The Basement"
   (2018 )

E’ griffato di variegate sonorità il debut-album dei God Of The Basement, che ostenta un bel fiore all’occhiello con petali di alt-rock, acid-beat, indie e fresca contemporaneità trip-hop. Il quartetto fiorentino interpreta la musica come meglio non si potrebbe: ovvero, con la mirata intenzionalità di regalare (e regalarsi) buone vibrazioni con la musica, senza maliziose finalità o tattiche doppiogiochiste. Qui c’è tumulto ed istintività, c’è quel groove tribal-beat coinvolgente e seducente, che ti fa alzare dalla sedia per sconfiggere la staticità. Dopo una intro percussiva, si passa alle sferzate rock di “Hell boar”, a sostenere un tappeto elettrizzante che scuote braccia e glutei. Il singolo “With the light off” evidenzia sinuosità ibride, come se i Talking Heads flirtassero con i Beastie Boys. Invece, “We do know” gode di ritmica rassicurante a lambire l’ipnosi di un blues-core graffiante e corrosivo, mentre “Beaten up” ha un sorprendente loop sottotraccia che rimanda ad echi Pink Floydiani di “One of these days”, miscelati col “disturbo” di voci autoritarie. I God Of The Basement sono mirabilmente abili nello scomporre samples in fattori vintage per amalgamare il sound in pregevoli soluzioni ritmiche, in modo che gli inaspettati disturbi succitati vengano ribaltati nell’accezione positiva. Dal carattere marcatamente blues si presenta “Kay” e mostra, al contempo, abrasività e sensualità persuasiva, centrando l’obiettivo di generare un ludico trip senza eccessi. Austera e severa, “Bobby bones” gronda di oscura malinconia che, certamente, troverebbe l’approvazione di David Bowie. L’accoppiata “Get loose” e “The saviour” deflagra con vigorose chitarre ed un beat dalle grandi risorse, che fa roteare teste in un forcing sudaticcio fino allo stremo. In acque più placide vira la closing-track “The sinner”, con inserti di tromba tex-mex che rivela un palese intento del combo: ossia, la melodia sempre al centro dell’attenzione, ma senza disdegnare segmenti d’interferenze o campionature, come dimostrano anche i due episodi di “Intermission”, inclusi nella lista dell’album. Oltre all’indubbia bravura della band, siamo convinti che, senza l’ausilio di Samuele Cangi alla produzione, i Nostri sarebbero rimasti avvolti nel loro microcosmo progettistico: ampio sì, ma non abbastanza esteso da contemplare quelle magistrali rifiniture tese a modellare l’insieme con l’esperienza che serve. Insomma, buona la prima! (Max Casali)