DIANA KRALL "The look of love"
(2001 )
Si ha un bel dire che il recensore dovrebbe essere assolutamente obiettivo e imparziale, che il suo giudizio dovrebbe essere rigido ed inflessibile e così via. Poi però capita sotto gli occhi un disco come questo, con la prima impressione della copertina ampiamente confermata nei risvolti interni in numerose piacevoli varianti, e allora ci si accorge che, se qualcosa nel frattempo è diventato rigido, non è certo il giudizio. Come se non bastasse già da un primo ascolto viene da domandare al buon Dio: ma come, “o te o chi per te” (dotta citazione da Ligabue) ad una che già si presenta così date pure in dono una voce perfetta, chiara ed equilibrata? Il senso critico langue, frustrato da queste reazioni a caldo, ma quando finalmente riemerge trova subito pane dove affondare i suoi denti aguzzi. Intanto è evidente che Diana Krall ha doti vocali non comuni, ma nel modo di usarle mi ricorda un po’ chi usa il cannone per uccidere le zanzare. Nel senso che da una voce così potente, profonda e sensuale ci si attenderebbe un tono un po’ meno monocorde. Invece, se si escludono pochi momenti (“Cry Me A River”) in cui il ghiacciolo sembra sul punto di sciogliersi, il disco scivola via cullandoci con il suono un po’ meccanico di una voce tecnicamente ineccepibile, ma del tutto impersonale. Viene da chiedersi dov’è andata a finire la passione, e come esatto contraltare della statuaria biondona si pensa alla “rospa” Nina Simone con la sua voce gracchiante e catramosa, che però in compenso dava un’emozione continua. Con la stessa perfezione formale usata nel canto, questa bellissima creatura dispensa le sue algide note di pianoforte, senza sbavature (e non è poco), ma dovessi trovare qualche aggettivo per il suo tocco, o addirittura avvicinarlo a quello di un vero pianista jazz, mi troverei davvero a disagio. E’ bene specificare che, per quanto classificata genericamente come cantante jazz, la nostra Diana appartiene piuttosto alla branca “nostalgica” di questa musica, quella che fa riferimento ai grandi crooners del passato (Frank Sinatra in primis, ma nel suo caso sarebbe meglio dire Barbra Streisand). Siamo al confine tra jazz e musica leggera, e in una raccolta del genere può finire anche l’antico tormentone “Besame Mucho”, sia pure in elegante versione bossa nova. La data del disco (2001) è fittizia: in pratica siamo fermi all’immediato dopoguerra, alle grandi orchestre da musical degli anni ‘40 e ’50. Qui a farne le veci viene impiegata addirittura un’orchestra sinfonica, e di quelle più rispettabili, la London Symphony Orchestra, ulteriore spreco di risorse in un disco che gronda lusso sfacciato. Che cosa potrà mai contenere un disco del genere? Risposta scontata: “standards”, classici del jazz e dei suoi immediati dintorni, da Gershwin a Bacharach passando per Carmichael. Classici arrangiati magistralmente, sia quelli mantenuti nella tradizionale forma di “ballad”, che la poderosa orchestra sembra rendere più lenti e solenni, sia quelli convertiti in bossa nova moderata, a volte fin troppo, al punto che le percussioni di Paulinho Da Costa stentano a perforare la corazza orchestrale e dare quel tocco di vivacità che ci si aspetterebbe. L’alternanza è freddamente schematica: traccia dispari = bossa nova, traccia pari = ballad. Tra i risultati migliori il Gershwin brasileiro di “’S Wonderful”, che apre il disco. Chissà se l’autore di “Rhapsody in Blue” avrebbe mai immaginato di potersi ritrovare cucinato in questa salsa, ma data la sua apertura verso i ritmi latini (“Cuban Ouverture”) probabilmente questa versione non gli sarebbe dispiaciuta. Più in generale mi sembra che l’abito brasiliano si adatti assai bene alla maggior parte di questi vecchi successi: altro esempio valido “Dancing In The Dark”, dove Diana si permette anche un timido assolo pianistico… certo che se penso allo stesso brano suonato da Miles Davis e Cannonball Adderley non c’è storia. Ma non è a questi mostri che la bella bionda va paragonata, ma piuttosto ai vari neo-crooners alla Bublè che, approfittando del pauroso vuoto musicale di questi anni, stanno riproponendo con successo un sound di almeno cinquant’anni fa. In questo mondo patinato la nostra Diana può fare un figurone, e non solo per le doti più appariscenti. Non solo, ma l’interpretazione di “Cry Me A River” dimostra che l’armamentario vocale di Diana Krall, se impiegato con la dovuta passione, può dare risultati sorprendenti, che vanno ben al di là della glaciale perfezione di questa comunque apprezzabile ed elegante raccolta di musica che definirei “da salotto”, ottima più che altro come sottofondo. (Luca "Grasshopper" Lapini)