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BLESSED CHILD OPERA  "Love songs/Complications"
   (2018 )

A chi vi si accosti con il dovuto rispetto e la necessaria cura, un’opera come questa richiede tempo, pazienza, dedizione, impegno. Gli stessi di chi l’ha ideata e realizzata. Bisogna approcciarla come merita, sondarla nelle profondità dei suoi sinuosi recessi per goderne la ricchezza. E le va concesso di suscitare un certo timore reverenziale: perché si tratta di un lavoro colossale – due cd, ventitré canzoni, novantacinque minuti di musica – e perché proviene dal vissuto di Paolo Messere, padre e padrone di Seahorse Recordings, produttiva etichetta indipendente nel cui catalogo figurano da anni novelties di spicco (Spiryt, Martyr Lucifer e Ropsten per citarne alcune).
“Love Songs/Complications” è il nono capitolo nella saga dei Blessed Child Opera, progetto che ha visto avvicendarsi dal 2001 vari interpreti accanto a Messere (oggi Rino Marchese al basso ed Ivano Augugliaro alla batteria), sempre sotto il cielo plumbeo di un alt-folk accorato e grave, qualcosa di indefinibile al crocevia tra Wovenhand, Songs For Ulan e certi Calexico, contrito connubio in minore di austerità e melanconia, forse anche veicolo terapeutico nel quale convogliare un intimismo tormentato e dolente.
Bipartito fra le dodici tracce di “Complications” e le successive undici di “Love Songs”, l’album si apre sugli accenti bui vagamente waitsiani di “You don’t need it”, teso presagio di deflagrazioni a venire: prevale inizialmente un approccio emozionale, tradotto in arie incupite sporcate da contrappunti inquieti e da un’elettricità nervosa (“Do you have chosen for life”). E’ una caliginosa atmosfera ravvivata nella marziale cadenza monocorde di “It’s not from me”, cullata in un minuto conclusivo di rarefatta purezza, e preludio a “Musty fruits pool”, sbilenca ed esitante: di fatto, la cesura da cui tutta la prima parte deraglia verso sviluppi imprevisti.
Da lì in avanti, le canzoni implodono su loro stesse tra clangori metallici, vocalità spinta (“Live forever in oblivion”), lievi dissonanze disturbanti, ritmi sintetici (“Kill that bastard”), costruzioni più complesse (le suggestioni prog di “You need me as you would need any other”), divagazioni armoniche contorte, ed un generale senso di oppressione che diviene predominante: “I’ll never be” oscilla tra singhiozzi à la Jason Molina ed un’ossessiva ripetizione semidistorta, echi dell’ultimo Bowie scuotono “As a gift from some god”, mentre “Loosing In Your Arms” chiude “Complications” su un passo introspettivo da For Carnation.
“Love Songs” torna ben presto agli antichi ardori con il crooning sbavato à la Neutral Milk Hotel che rende memorabile l’agonia introversa dell’opener “I force myself”, con la straziata melodiosità rigonfia di “Torpore”, la languida morbidezza di “Bleeding on me”, l’afflizione in stile National di “Boat sunk years ago”, o il romanticismo suadente di “Just like a mental state”. E se “It’s easy to ease it” richiama perfino i Pavement nel suo insistito rimangiarsi ogni possibilità di fuga, l’indolente ciondolare dell’accoppiata “Today is not one of those days, today is not one of those good times” e “You know that nothing is lost” ha qualcosa degli ultimi Red House Painters, prologo all’effimera brillantezza di “In your panties” e “Wondering in the street session”, titoli di coda intrisi di una bellezza sofferente ed implosiva.
Ispirato e creativo, mai ridondante né autocompiacente, “Love Songs/Complications” è - in fondo - tutto qui: ventitré ballate, molte delle quali sì storte e ondivaghe, ma ciascuna libera di inseguire piccole deviazioni ed inattese, minimali variazioni sul tema. Quasi incredibile come Messere riesca a mantenere la rotta di un disco monumentale che scorre oscuro e mugghiante come un fiume impetuoso di notte, desolata meraviglia sfuggente che sa ammantare di infinite sfumature uno spleen insopprimibile. Album immenso, tra i migliori ascoltati quest’anno. (Manuel Maverna)