SINFONICO HONOLULU "Thousand souls of revolution"
(2018 )
Un’orchestra di ukulele, potevate immaginarvela? Esiste, e sono i Sinfonico Honolulu. Che nell’album “Thousand souls of revolution” rivisitano in chiave hawaiana una serie di canzoni del passato, con riferimento ad una scena ben precisa e significativa: quella che passa dal post-punk alla new wave, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Quest’operazione, oltre ad essere divertente, evidenzia quel filo rosso che collega un po’ tutte le scene musicali ribelli: dal surf californiano, attraverso il punk e fino al primo indie. Riascoltare in chiave acustica “Not a love song” dei Public Image Limited, dove Johnny Rotten proseguiva il suo percorso beffardo, non risulta una brutta idea. Dopotutto, se il punk dissacra tutto, può anche farlo con sé stesso. A tal punto che qui si opta per effettare il cantato con un pesante autotune da Eiffel 65. Alcune rivisitazioni (non tutte) fanno addirittura guadagnare punti all’originale: “Caterpillar” dei Cure, già sorprendente di suo, in questo alleggerimento (ribattezzato “Carterpillar”) sembra ancora più surreale, specie quel famoso ponte centrale così magico. Anche “The voice” degli Ultravox viene riscaldata, rispetto alle fredde sonorità new wave. “Strange little girl” degli Stranglers mantiene la delicatezza originale, con il sound ovviamente più asciutto. Si gioca ancora con il post punk grazie a “Killing moon” degli Echo & The Bunnyman, ma lo spirito dei Ramones sopraggiunge, grazie alla loro “Oh oh I love her so”, superata anche in questo caso. Strano effetto invece per “Lonely boy” dei Black Keys, che sembra un indie pop di quelli più smorzati. La stranezza risulta curiosamente in tema con il testo, nel rifare “Personal Jesus” dei Depeche Mode: il riff elettrico, ripreso dall’ukulele, assume una valenza mistica ed ipnotica. Anche “Johnny come home” dei Five Young Cannibals (ribattezzata semplicemente “Johnny”) è stramba, ma lo è come l’originale, quindi tutto ok. “Love will tear us apart” invece, nonostante l’arrangiamento che la rende più piacevole (senza quei tristi archi di tastiera), non subisce trasformazione per quanto riguarda l’umore originario dei Joy Division. Lo stesso dicasi per “Mistify” degli Inxs. L’esperimento più interessante di tutti però, è su “Try try try” di Julian Cope. Suonata in questa maniera, la canzone si confonde con il pop zuccherato dei giorni nostri. Testimonianza forse della modernità di Julian Cope? E forse anche questo è l’intento dei Sinfonico Honolulu. Non solo divertire con lo strumento più youtubbaro di sempre, ma anche rispolverare quella scena che voleva essere rivoluzionaria, nel costume e nel pensiero, e non solo celebrarla ma tentare di seminarla oggi, con un sound che sia fruibile alle nuove orecchie. Encomiabile. (Gilberto Ongaro)