recensioni dischi
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HENRIK FREISCHLADER BAND  "Hands on the puzzle"
   (2018 )

Henrik Freischlader e la sua band portano in giro per la Germania un blues sporcato di alcune influenze soul e funk, ma tutto sommato fedele al sentimento originale del genere. Chitarrista autodidatta secondo Wikipedia (ma l’articolo è messo in discussione), nel 2018 pubblica l’album “Hands on the puzzle” dove non c’è solo musica, pur essendo la protagonista del disco, con il sassofono, il piano rhodes, l’hammond, e tantissimo groove. Mentre il blues muove quell’ormai nota sensibilità ancestrale che accomuna bianchi e neri, orientali e melanesiani, le parole non sono un classico riempimento per coprire quelle solite blue notes. Freischlader ha compiuto una scelta che ad oggi sembra estrema, per chi lavora nello spettacolo: cancellarsi dai social network. C’è da dire che forse in patria è abbastanza noto e può permetterselo (nel 2010 ha suonato al RockPalast, per dire, dove nel 1977 si esibiva un certo Peter Gabriel appena diventato solista), ma resta comunque un ottimo messaggio, il segnale che si può fare, tornare a suonare solo dal vivo e a poter apprezzare gli artisti solo di presenza, al massimo acquistando il loro cd. Questo concetto, ma anche tanti altri, sono diffusi all’interno dei pezzi. In “Those strings”, classico 6/8 col giro armonico più basico che ci sia, Henrik canta: “Deactivated my Facebook, and my Twitter too..”. L’affondo è più efficace in “Community immunity”, un riff fatale all’unisono tra sax e chitarra wah, dove si intona una predica anaforica: “We wanna be king, we wanna be queen (…) we wanna see, we wanna be seen, we wanna be special, we wanna be part (…)”. Riflessioni ancora più provocatorie in “I don’t work”, che già dal titolo probabilmente fa arrabbiare il 70% degli esseri umani; ma ascoltando tutte le parole si capisce che non è un inno al parassitismo! Anzi, la filosofia, difficile ma resa accattivante dal sound, diventa sorprendente con “Share your money”: condividere i tuoi soldi, per fare un posto migliore ed essere più vicini. E nel ritornello si ripete spesso la frase “We have to go back”. Si rievoca spesso un Eden di cui potenzialmente facevamo tutti parte, volendo pensarla come Rousseau: secondo lui, l’uomo viveva felice fino al giorno in cui inventò la proprietà. E guardando al futuro, Henrik canta: “Where do we go”, un lento caratterizzato dall’organo pieno e da un assolo centrale di chitarra. Si può essere d’accordo o in disaccordo con i suoi pensieri, questo non scalfisce minimamente l’affiatamento della band e la capacità di realizzare un rallentato coi fiocchi come nel finale di “Rat race carousel”. La band sa alternare passaggi forti esaltanti, come nel blues rock di “Winding stair”, a fasi molto delicate senza diventare mai noiose, anzi, come in “Mournful melody” portano all’emozione viscerale. Già nell’inizio soft, il brano contiene una malinconia trattenuta, che poi esplode con l’overdrive di chitarra e il leslie acceso dell’hammond. Classico e sempre efficace. Il soul in shuffle di “Stand up, little brother” è scanzonato come fosse un classico interpretato dei Blues Brothers, ma la band si diverte soprattutto in “Creactivity”, una jam con inganno: a metà la traccia sfuma come fosse finita, invece resuscita parecchi secondi dopo (scherzo scuola Beatles), si sente una voce narrante grottesca come quella di un pirata, ma soprattutto ancora assoli e parti all’unisono virtuose. Questa è la ricetta di Henrik Freischlader: blues piacevole da ascoltare, suonato bene, e con qualcosa di diverso da dire. (Gilberto Ongaro)