recensioni dischi
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KAORI SUZUKI  "Conduit"
   (2018 )

Il nuovo lavoro di Kaori Suzuki, “Conduit”, è un tuffo nel minimalismo aggressivo di John Cage e Keiji Haino, nell’avanguardia più accesa e profonda, dove un suono, ripetuto per molto tempo e modificato continuamente in intensità e frequenza, riporta l’ascolto al suo aspetto primordiale e fragile. Uscito per l’etichetta Second Editions, “Conduit” è un prodotto che potrebbe stare benissimo all’interno della Tzadik, senza dimenticare, inoltre, l’influsso di artisti come Kevin Drumm e Makoto Kawabata, che utilizzano, però, a differenza di Suzuki, le chitarre.

Pensato per contesti live, destinato a essere riprodotto ad alti volumi e per una lunga durata di tempo, anche in loop, “Conduit”, ventisei minuti corposi e complessi di computer music, è un esperimento e un’esperienza che risulta al tempo stesso godibile e fastidiosa, proprio perché l’intento dell’autore è quello di inserire a un sottofondo minimalista, inizialmente piacevole e melodioso, un pattern di suoni che modificano impercettibilmente le proprie frequenze e intensità, che risulta anche complicato da gestire per le orecchie dell’ascoltatore. Questa è la grandezza di “Conduit”: come ogni opera degna di nota attrae e spaventa, conquista ma infastidisce. La Suzuki è brava a gestire il timing, portando avanti per quasi metà brano (circa una dozzina sui ventisei totali) un suono più pacifico, prima di farlo virare verso sonorità ancora più stridenti e taglienti, sempre più acute (intorno ai venti minuti l’ulteriore cambiamento è evidente e sinistro). Si sentono tracce di industrial, di avanguardie americana e giapponese, di Blixa Bargeld, Alva Noto, ma anche di Stockhausen e, come vedremo, John Cage.

La bellezza di “Conduit” sta proprio nel fatto che, ascoltato tutto d’un fiato, nessuno noterebbe le differenze che intercorrono, mettiamo, tra il minuto sei e il minuto ventidue; ma, a riprova del fatto che le differenze ci sono eccome, al secondo ascolto è bene passare bruscamente proprio dal minuto sei al minuto ventidue, per capire quanto c’è di diverso in un pattern che, se esteriormente resta identico, vede forti cambi di frequenze e intensità. Il fischio d’un tratto diventa quasi insopportabile: siamo al minuto ventitré, l’opera si sta autodistruggendo da sola o tra le mani del suo stesso autore, fino a diventare un cumulo di macerie indistinguibili.

Come il John Cage di “Empty Words” che ripete all’infinito parole di senso compiuto che però una vicino all’altra non significano nulla, anche in “Conduit” finiamo per ammirare qualcosa di grandioso che ai nostri occhi resta ignoto, incomprensibile, come il ritrovamento di una parete riempita di parole scritte in un alfabeto sconosciuto. “Conduit” ci consegna un’avventura degna di Charlemagne Palestine e delle sue stupende follie sperimentali, fino al punto in cui l’ascoltatore soccombe e l’opera si strappa, soffoca in sé stessa; la macchina attoriale carmelobeniana si autoannulla; noi, confusi, brindiamo alla morte dell’autore, con la quale si chiude “Subterraneans” del sublime “Low” (1977) di David Bowie. (Samuele Conficoni)