VANESSA PETERS "Foxhole prayers"
(2018 )
E’ solo apparente l’ingannevole calma che avvolge in una coperta di formale rilassatezza le dieci tracce di “Foxhole Prayers”, nuova fatica di Vanessa Peters a due anni da quella piccola meraviglia che fu “The Burden Of Unshakeable Proof”.
E’ cambiata nel frattempo l’America che Vanessa vede e vive, si è inasprita l’amarezza con la quale fa i conti, si è temprata la sua indole combattiva in quel modo così gentile e ponderato.
Introdotto dal raffinato artwork di Jackdaw Russell, musicalmente “Foxhole Prayers” si muove lungo le tradizionali coordinate che caratterizzano il folk-rock classico di Vanessa, screziato occasionalmente da accenti country (la toccante “Just One Of Them”) e virato talora verso timide tentazioni indie nell’accelerazione di “Lucky” o nel mid-tempo aperto ed arioso di “Get Started”, apertura asciutta e corroborante.
“Foxhole Prayers” è un susseguirsi di tristi melodie dall’incedere pigro che Vanessa presenta con una slackness che ne smorza la voce dal timbro suadente, pacato sdegno intriso di disincanto ed ammantato da un insopprimibile gusto per la ricerca del prossimo gancio.
Lo fa con innata nonchalance, soppesando parole che sono macigni nello sfrontato sberleffo satirico di “Carnival Barker” (You get a circus - history told us - if you vote for a clown), ballata in minore à la Gillian Welch che reca con sé un esplicito attacco al potere; altrove predominante è un senso di incupita irritazione che mai cede alla rassegnazione, un alone di desolazione ben condensato nel depresso cunicolo al rallentatore di “Before It Falls Apart” o nella fievole aria della title-track, inusitata delicatezza a fil di voce impreziosita da un ritornello di struggente melanconia.
Mi piace paragonarla ad una Lucinda Williams più elegante mentre si guarda allo specchio ed intona la confessione amara di “Fight”, sorta di uno-contro-tutti a muso duro, un quattro quarti cadenzato à la Tom Petty in un registro che sa di risentimento e sfida, mai di rinuncia; o mentre chiude sull’armonia sbavata di una “What You Can’t Outrun”, morbida aria dimessa e contrita à la Mary Gauthier, piuma che volteggia lieve in caduta libera.
Disco che ribadisce a grandi lettere la levatura di un’artista forse inopinatamente considerata minore, ma che in realtà possiede tutto ciò che serve: ha slancio e cortesia, misura e ferocia dissimulata, fuoco sotto la brace. Ha una voce perfetta per adattarsi alle storie di ordinario cordoglio che racconta. Non parla d’amore, preferisce un approccio differente: è Vanessa di fronte al mondo, con le sue debolezze e la sua rabbia, battagliera e crucciata dietro quei grandi occhi blu. Some days it feels like there’s nothing/but an empty road before me/and thunder from above. (Manuel Maverna)