ANTONIO CARLOS JOBIM "The composer of Desafinado, plays "
(1963 )
Liquidare Antonio Carlos Brasileiro de Almeida Jobim (nome completo) come il compositore di “Desafinado” vuol dire farlo passare per il tipico autore che imbrocca un motivo e su quello finisce per campare di rendita, magari per una vita. Di costoro ce ne sono a iosa, ma si può ben dire che il nostro Antonio Carlos Jobim (nome ufficiale) è proprio l’opposto: un compositore di “standards” brasiliani così prolifico e così costantemente ispirato che i 12 classici contenuti in questo disco dal titolo un po’ infelice non danno ancora una misura precisa della sua creatività.
E’ praticamente impossibile non imbattersi in qualche composizione di Tom Jobim (nome confidenziale) appena si sente odore di Brasile e di bossa nova, quell’inconfondibile sublimazione del ritmo di samba in cadenze più pacate, che ha incantato tanti interpreti dei più svariati generi, da Miles Davis (“Corcovado”) a Mina (“Insensatez”). Tanto per rendere l’idea, in una raccolta di 36 classici brasiliani, un doppio CD di João Gilberto, tra gli autori compare 15 volte il nome “A.C. Jobim”. Ma si può incontrarlo anche dove meno ci si aspetta, come per esempio in mezzo al baccanale di percussioni del Santana di “Caravanserai”, con la trascinante “Stone Flower”, oppure nelle fluide note di “Meditation” che sembrano traboccare dal profondo imbuto del sax di Dexter Gordon.
Quest’ultimo esempio rientra nel rapporto privilegiato di Jobim con il jazz, di cui questo disco del 1963, il primo inciso negli USA, è una conferma. Dunque il compositore di “Desafinado” suona, e precisamente il pianoforte: il fatto è annunciato quasi con stupore, ma è fin dalla prima giovinezza che Jobim ha a che fare con questo strumento, sempre usato però come mezzo per liberare la sua sconfinata fantasia compositiva, piuttosto che come palestra di esercizi virtuositici. E infatti Jobim suona un po’ alla maniera dei leader delle grandi orchestre jazz, come insegna Duke Ellington: sornione e quasi in sordina, nascosto dietro l’orchestra, non dispensa neanche una nota in più di quelle che servono per presentare le melodie immortali dei suoi classici.
L’orchestra è quanto di più tradizionale si può concepire in un’epoca in cui nel jazz imperversavano le piccole formazioni: un’autentica orchestra d’archi, con qualche solista (Leo Wright, flauto) che ogni tanto esce allo scoperto, e una base ritmica formata dal basso di George Duvivier e dalle percussioni di un ignoto che il disco neanche menziona, ma si potrebbe ribattezzare “metronomo”, dato che scandisce la bossa nova con precisione assoluta e senza abbellimenti.
Praticamente un ibrido tra orchestra classica e jazz band, con netta prevalenza della prima. In questo modo i capolavori di Tom Jobim, già spogliati dei testi poetici, spesso firmati Vinicius De Moraes, risultano ulteriormente denudati, eppure brillano ugualmente di luce propria sia per la bellezza essenziale delle loro melodie, sia per l’affascinante ritmo di bossa nova che le avvolge. In certi casi il risultato è sorprendente: prendiamo l’arcinota “The Girl From Ipanema”, che siamo abituati a conoscere nella sensuale versione di João Gilberto, con la moglie Astrud e il focoso sax di Stan Getz. In questa esecuzione orchestrale ciò che si perde in colore si acquista nella capacità assoluta, fotografica, di fissare il breve incantesimo, la visione dell’ormai leggendaria ragazza dalla pelle dorata che passeggia sulla spiaggia di Ipanema. Tom Jobim al piano accenna una minima variazione, per poi tornare nei sicuri binari del tema iniziale.
Le notti di “Corcovado” (“Quiet Nights of Quiet Stars”) qui sono davvero un’oasi di tranquillità, su cui veglia la celebre statua del Cristo; invece nella magica versione di Miles Davis, fulminea nella sua intensità, c’è un brivido d’inquietudine, che finisce per turbare l’idillio stellato della notte di Rio. L’ambientazione di “Favela“ (alias “O Morro Não Tem Vez”) è ben lontana dall’inferno metropolitano che ci si aspetta: un flauto zuccherino ci guida in una favela da favola (gioco di parole involontario), roba da film “Orfeu Negro”. Lievemente accelerata “Samba De Uma Nota Sò”, ma ben lontana da quella specie di scioglilingua che ne farà la voce di Astrud Gilberto. Come del resto “So Danço Samba”: più che alle versioni “scat-enate” (gioco di parole voluto, con riferimento agli spericolati vocalizzi jazz noti come “scat”) di un’Ella Fitzgerald all’epoca ancora giovane, fa pensare alla più compassata Ella del 1981, al suo pregevole “Ella Abraça Jobim”, ennesima raccolta di classici del maestro brasiliano.
“Amor Em Paz” e “Vivo Sonhando” rischiano di essere sommerse da un mieloso strato di archi, ma si salvano entrambe per la loro irresistibile, soffusa malinconia. Vale in parte anche per “Insensatez”, ma qui la tristezza è più palpabile, anche se non quanto nella dolente interpretazione di una Mina ancora un po’ acerba (1964), che quando intona la parola “insensatez” sembra dire sconsolata “senza te”. La stessa “Desafinado”, a parte la breve introduzione, non trasmette quella strana sensazione di smarrimento che conosciamo grazie alla voce dolcemente stralunata di João Gilberto, ma acquista una certa vivacità giocosa, che comunque non ne pregiudica il fascino.
Ed è un po’ tutto questo disco, questa specie di viaggio in un Brasile di un’altra epoca, a dimostrarci che certi classici hanno una personalità così marcata da non essere influenzati più di tanto dall’interpretrazione. Non a caso si tratta di classici, e Antonio Carlos Jobim ne è stato un infaticabile creatore. (Luca "Grasshopper" Lapini)