JONI MITCHELL "Hejira"
(1976 )
Anonima serata di qualche giorno fa. La TV parla della Donna del Momento, quella che si sta ritagliando il suo quarto d’ora di celebrità grazie al finto scandalo legato alla relazione con un viticoltore pugliese, più noto come cantante, vecchia gloria dell’Italia nazionalpopolare. Ci sono giornalisti, sociologi ecc., e tutti come i medici di Pinocchio sparano dotte sentenze sul caso. C’è anche lei, la Donna del Momento, ad esporre la sua arte, che consiste in un poderoso paio di poppe ad alto rischio di scoppio, e in una saccente parlantina a raffica, stile onorevole Vito. Per un po’ osservo abbastanza divertito, poi mando tutti a cacare, vado diritto alla mia parete di CD, acchiappo senza esitazioni “Hejira” di Joni Mitchell e me lo godo per intero. Perché proprio Joni Mitchell? L’inconscio non agisce a casaccio, ma mi ha guidato verso l’esatto opposto della Donna del Momento: una vera artista (cantautrice, pittrice, poetessa) che non è mai stata e non sarà mai argomento del gossip da parrucchiere, ma in compenso con l’aiuto di una chitarra e poco più ha segnato un’epoca, proponendo un modo tipicamente femminile di intendere la canzone d’autore, con meno rabbia, meno impegno e più attenzione ai problemi della vita di tutti giorni e alle relazioni umane, viste dalla parte di una donna intelligente e sensibile. Lo so che tutto ciò è demodé: non per nulla il periodo d’oro della Mitchell va da fine anni ’60 a fine anni ’70, ma anch’io sono demodé, e lo divento sempre più via via che ci bombardano con nuovi “fenomeni del momento”. Non so fino a che punto sia un caso ma Joni Mitchell nasce in Canada, anche se poi si trasferirà in California. Canadese come Leonard Cohen, anche lui grande artista polivalente (poeta, scrittore e cantautore) non certo noto per far parlare di sé, ma in compenso capace di toccare i sentimenti più profondi. Dunque, perché ho scelto Joni Mitchell in qualche modo l’ho spiegato. E allora perché proprio “Hejira”? Qui dipende dai gusti: la prima fase di Joni, scarna e acustica, chitarra pianoforte e voce, che culmina nel capolavoro “Blue”, non mi dispiace affatto, ma quella successiva, con l’apertura alle contaminazioni jazz, è troppo più appetitosa per un buongustaio come me, che nella musica come nel mangiare ama le cose corpose, sostanziose. E in questa seconda fase giganteggia “Hejira”, del 1976, titolo ispirato alla fuga di Maometto dalla Mecca, ben più importante storicamente della mia fuga dalla TV, ma comunque sempre di fuga si tratta. Anche la voce di Joni è maturata: dagli squillanti gorgheggi dei primi album siamo passati a tonalità più roche e, cosa non spiacevole, decisamente più sensuali. Ma è la strumentazione che rende unico questo disco: tutt’altro che abbondante, è però perfettamente equilibrata nell’incontro tra le limpide risonanze delle due chitarre (Larry Carlton e la stessa Mitchell) e i toni cupi, a volte decisamente tetri, del basso, suonato da un autentico jazzista, Jaco Pastorius, anche se non in tutti i brani. Solo la tenerissima “Blue Motel Room” si può definire una vera jazz ballad: per il resto prevalgono ballate di impostazione ancora decisamente folk, acustica, ma arricchite in modo geniale dall’ingresso di strumenti jazz, come il vibrafono, che fonde i suoi echi con quelli delle chitarre, dando uno stupendo “effetto campana” nella malinconica “Amelia”, momento più toccante del disco insieme all’altrettanto oscura “Hejira”, con in gran spolvero il basso di Pastorius, le cui agitate convulsioni riescono a torcere le budella. Grande potere magnetico ha la stralunata “Furry Sings The Blues”, che ospita l’armonica di un altro illustre canadese, Neil Young. Chi cerca il ritmo ne troverà ben poco: giusto “Black Crow” e “Coyote” con le loro timide sincopi si distaccano dal clima dominante, quello di lente e dolci ballate, a volte decisamente lunghe (“Song For Sharon”) ma sempre così melodiche e ben strumentate da non annoiare mai. (Luca "Grasshopper" Lapini)