DAVE MULDOON "Smoke steel and hope"
(2018 )
New York è la terra natale di Dave Muldoon, cantautore trapiantato a Milano nel 2000 e quindi ormai italoamericano o, per la precisione, in questo caso americo - italiano. E come spesso accade a chi va all'estero, Dave porta con sé le radici delle proprie origini in maniera forse più forte, di chi negli Stati Uniti ci resta. In quest'album "Smoke steel and hope", fin dal primo pezzo "Die for you" si respira America, intendendo la band. Oltre al tipico fascino delle chitarre con lo slide, l'organo hammond e tanti elementi delle canzoni U.S.A., le canzoni possiedono anche una vena malinconica (ma mai deprimente eh), come quella di "New York city life", e l'approccio emozionale è suggellato dalla presenza ricorrente di cori, come quelli di "Nothing at all" e di "Long time", quest'ultimo un pezzo abbastanza strano. Non ha crescendo di intensità, che resta pressoché immutata. C'è un rapido inciso di chitarra che prosegue imperterrito anche quando la canzone si ferma, raggiunto poi appunto dal coro che ripete ossessivamente "Everybody rock your body". Sapore southern in "Destiny' Child", dove il ritornello ammonisce: "You're not Destiny's Child". Dove Dave va più forte però sono i brani lenti, come "Mountain", in cui un suggestivo arpeggio di chitarra acustica trasporta parole di osservazione del vento e delle montagne. Il brano, del tutto "roccioso" (nel senso che contiene suoni analogici e di chitarra, batteria ecc.), viene stranamente investito alla fine da un arpeggio elettronico. Fa da anticipazione ad "Horizon", pezzo dal riff lisergico di chitarra elettrica, ispirato da un incendio a Ibiza: "There's a fire on the skyline, on the horizon". L'assolo è psichedelico quanto basta per rievocare la fine degli anni Sessanta. "Dancing" propone un costante ondeggiare su due accordi distanti un semitono, rendendo la canzone "latineggiante", agli occhi di un anglosassone; ma il risultato è comunque quello di un alt rock senza fronzoli. "On the radio" si presenta su un piano elettrico, solenne come fosse la "I'm on fire" dell'album, volendo tenere a mente "Born in the USA" di Bruce Springsteen come Lp di riferimento per questo tipo di produzioni. Restano sempre presenti i cori, e anche qui arriva l'arrangiamento elettronico ad ammodernare la situazione, che altrimenti sarebbe stata la ripetizione degli stilemi da cowboy. E per finire, una bella canzone di buoni consigli per chiudere questo lavoro: "Get what you need", che suona come un brano dei Dire Straits. In conclusione, questi pezzi, forse inconsciamente, attingono da influenze che si estendono ben oltre la sola New York, racchiudendo un po' tutti gli States. La metropoli milanese ha sicuramente una personalità tutta sua, e Dave, portando queste canzoni in Italia, è come ricreasse il suo ambiente, dove si sente più a suo agio, e nel frattempo ci porta virtualmente a spasso nella Route66, restando nel Belpaese. (Gilberto Ongaro)