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OKKYUNG LEE  "Cheol-Kkot-Sae (Steel.Flower.Bird)"
   (2018 )

Okkyung Lee, compositrice e violoncellista sudcoreana, laureata a Berklee nel '98, è un esempio della condizione della musica contemporanea, che sembra essere ancora in salute, nel suo versante sperimentale e di ricerca. Tradizioni coreane e modernità si fondono, in un percorso compositivo personale. “Cheol-Kkot-Sae (Steel.Flower.Bird)” (appena uscito per Tzadik Records) è un'unica traccia di un'esibizione di 44 minuti e 30 secondi, chiaramente dal vivo, come testimoniano al diciannovesimo minuto gli immancabili colpi di tosse, ospiti di ogni performance teatrale. Si tratta di una composizione che comprende larghe zone di improvvisazione, e per poter brevemente spiegare cosa accade in questi tre quarti d'ora, si può commentare solo come un telecronista di calcio, sottolineando le azioni salienti. All'inizio siamo accolti dalla voce di Song-Hee Kwon, che canta seguendo la tradizione del Pansori, una narrazione vocale che non segue l'intonazione occidentale, ma persegue l'utilizzo di un vibrato molto accentuato, e di un'espressività drammatica. Il violoncello risponde con poche note, ma già si può ascoltare il tipico glissato, qui molto blando, ma che diventerà centrale più avanti. Nel tempo, la voce vira in acuto aumentando in enfasi, a cui il violoncello di Lee corrisponde con un crescendo d'intensità, con trilli e pianti. Fanno capolino le percussioni, che al nono minuto prendono il sopravvento. Al decimo minuto, il violoncello estende i glissati, e viene fatto vibrare come una molla. Al dodicesimo minuto il sax inizia a dialogare col violoncello. Il contributo elettronico, finora placido e di contorno, al tredicesimo minuto fa balzare all'indietro con una violenta esplosione digitale. La forma d'onda sarà poi modulata nervosamente, mentre al quindicesimo minuto, sopra al maremoto sintetico, faranno capolino voce e sax. La seconda metà (22 minuti in poi) è inizialmente caratterizzata dai glissati sulle note più gravi del violoncello, che creano onde d'alta marea, mentre udiamo uccellini elettronici che cinguettano. Al ventiseiesimo, questi simpatici cinguettii si trasformano in fischi striduli e insopportabili, stoppati per fortuna dal tradizionale tamburo (forse il buk, quello che accompagna la cantante durante il pansori). Il buk diventa solista per tre buoni minuti, raggiunto poi all'unisono da basso elettrico e vibrafono, che assumono una connotazione jazz, con calma apparente, mentre la cantante riprende la narrazione rituale. Al trentunesimo ritorna il sassofono, stavolta molto più graffiante. L'assolo percussivo che ne segue sarà così convincente come chiusura, che al trentaseiesimo ingannerà il pubblico che inizierà ad applaudire entusiasta, quando in realtà non è ancora finita. La cantante torna mormorando molto piano, e solo quando avrà chiuso la performance sarà veramente conclusa. Dopo gli applausi viene concesso un bis, nel quale un pianoforte eseguirà un tema tonale, ma pieno di dissonanze paurose. Questa realtà sonora rimanda al Pansori all'apice del suo splendore nell'Ottocento. Ascoltarla, per un occidentale, specie se italiano e tendente all'ironia, può far pensare alle parodie dell'Estremo Oriente firmate da Aldo Giovanni e Giacomo, con la complicità della Gialappa's Band. Il mondo tradizionale coreano, involontariamente strizza l'occhio proprio a quegli stereotipi sonori che conosciamo. Tale difficoltà di comprensione però, è appartenuta anche alla stessa Okkyung Lee in giovane età, ed è stato il motivo della sua fuga a New York. Come capita spesso, allontanandosi dalla terra della propria "imbarazzante" tradizione, si inizia poi invece ad apprezzarla e valorizzarla, comprendendone la profondità storica e soprattutto spirituale (come gli italiani che solo all'estero iniziano a "capire" la musica napoletana). E così, Lee riesce a riportare questa tradizione, fatta di tempi dilatati e nevrosi teatrali, nel contesto della musica contemporanea, da sempre così golosa di stimoli antiaccademici, facendola così apprezzare agli ascoltatori dei nostri giorni, cresciuti a pane e John Cage. Ricordandoci così che in fondo la Storia è sempre una spirale, e che certi patrimoni antichi forse sono più vicini a noi, di certi piatti standard commerciali imposti nella cosiddetta (un)popular music. (Gilberto Ongaro)