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DULL COMPANY MYSELF  "To load the feeling of a trembling whisper"
   (2018 )

Discretamente inevitabile per chiunque sia cresciuto a pane e Cure come il sottoscritto, non provare almeno un brivido nel corso del primo minuto di “The Time You Spend On Your Promises”, traccia di apertura di “To Load The Feeling Of A Trembling Whisper”, album che sotto il moniker Dull Company Myself segna il debutto solista su lunga distanza (unico precedente l’ep di 4 brani “Wright Of Vacuum”, pubblicato su cassetta) del ventunenne Matteo Ferrante, originario di Cisterna Di Latina e già membro del collettivo Stille Dämmerung. Edito da Lady Sometimes Records, “To Load The Feeling Of A Trembling Whisper” raccoglie otto composizioni fortemente orientate al recupero quasi revivalistico di elementi prettamente riferibili alla dark-wave degli anni ’80: in primis rievocando con devozione semi-calligrafica i già menzionati Cure, nume tutelare la cui ombra lunghissima si staglia con prepotenza su canzoni forse non imprevedibili, ma sincere nel dispensare un alone di incupita oscurità come si conviene al genere; quindi designando la sostanza dell’intero lavoro come una sorta di divertissement citazionista capace di pescare a piene mani da un mare magnum ancora tetro e ribollente come ai bei vecchi tempi. L’operazione è ben eseguita, sviluppata e portata a termine con rispetto dei canoni rispolverati per l’occasione: ogni traccia reca in sé i fiori del male di un’età lontana ma ben presente nella memoria, dispensando come in un abbecedario d’antan accenti post-punk (“Garden of Frontiers”, che deraglia in una selva di elettricità inacidita à la Pere Ubu) e mid-tempo catacombali à la Andrew Eldritch, lambendo lande sinistre e spettrali nel beat incalzante della title-track, sfiorando perfino una versione funerea degli Smiths nelle tessiture chitarristiche di “The Tallest Thought In My Mind”. Dal passo di una “Travelling Spaces” che riecheggia i fratelli Reid alla chiusa di una prodigiosa “Nothing Means Regression”, con atmosfere degne dei Joy Division di “Decades”, l’album è un florilegio di stilemi non più così in voga, che risulterà tuttavia particolarmente gradito a chi la musica buia di quegli anni non l’ha mai scordata, come a coloro che oggigiorno la ignorano o la declassano a feticcio per nostalgici. Sebbene a lungo andare il restyling cessi di sorprendere – se hai più di quarant’anni queste cose le hai conosciute in diretta -, non si può non riconoscere a Ferrante l’onestà di un lavoro comunque encomiabile, specie per l’esplicita volontà di recuperare cocci di un tempo non così perduto, concedendo a sonorità e suggestioni passate di riemergere in tutta la loro tetra, fascinosa bellezza. (Manuel Maverna)