RICKIE LEE JONES "Rickie Lee Jones"
(1979 )
Aborro il pettegolezzo, specie quando viene chiamato gossip per confondere le idee, ma per una volta mi piace prendere spunto dal fatto che Rickie Lee Jones è stata la donna di Tom Waits. E non una delle tante, ma una che per un periodo abbastanza lungo è riuscita a tenere impegnato in un legame stabile un personaggio che è il ritratto dell’instabilità. Qualcuno dirà già “E chi se ne frega?”, io invece dico che già da questo si può dedurre che la donna di cui stiamo parlando ha doti non comuni, ovvero, come si usa impropriamente dire, “ha le palle”. Le sue doti più vistose sono apprezzabili nelle foto dei risvolti interni di questo splendido disco d’esordio e del successivo “Pirates” (per chi ha i vinili), ma questo è solo un piacevole diversivo. C’è di più, molto di più: l’avventuriera di Chicago trapiantata in California ha davvero un notevole talento musicale, del tutto indipendente da quello di Tom Waits. Il suo approccio alla tradizione americana, soprattutto al blues e al jazz, è molto meno sofferto e intenso di quello inconfondibilmente tossico-alcoolico del suo (allora) compagno. In compenso è estremamente più elegante e lineare: attenzione, non sto dicendo che è migliore, dico solo che è una musica di godimento più immediato, ma con questo rimango un grande appasionato di Tom Waits, anche se a volte devo sudare per star dietro alle sue trame contorte. Rickie Lee Jones con la sua inventiva compensa doti vocali non eccezionali: una vocina piuttosto acerba e incolore, che ha l’unico pregio di essere maledettamente sexy. Il suo brillante esordio risale al 1979 e fornisce già un saggio completo delle capacità di questa cantautrice, che sembra trovarsi a suo agio con ogni genere musicale, purché americano, spaziando dal jazz limpido e un po’ rétro di “Easy Money”, tocco di classe dell’album, all’intensa ballata acustica “The Last Chance Texaco”, basata sullo stile di Joni Mitchell, ma drammatizzata da notevoli impennate in cui la sua non eccelsa voce dà veramente tutto quello che può, e forse di più. Non eccelsa quanto si vuole, ma assai duttile: capace di assecondare i ritmi blues della vivace “Chuck E. ‘s In Love”, e subito dopo di passare a duettare con piano, archi e oboe in un capolavoro di struggente melodia come “On Saturday Afternoons in 1963”, o di gorgheggiare dolcemente nella sublime ed eterea “After Hours”, che chiude il disco quasi sfumando nel nulla. Capace di dare i brividi nella gelida e paranoica “Coolsville”, in cui anche il pianoforte picchia duro e minaccioso come le percussioni, oppure di avvolgerci nel ritmo irregolare e vagamente esotico di “Young Blood”. Capace di aprirci i larghi panorami di una solare ballata West Coast come “Night Train”, quindi di travestirsi da crooner nella classicissima “Company”, per pianoforte, archi e voce, e ancora di lasciarsi andare in un boogie scatenato pieno di vocalizzi maliziosi come “Danny’s All-Star Joint”, e infine di tenerci sei minuti in magica tensione con la stupenda “Weasel And The White Boys Cool”. Quanta varietà in un solo disco: fare così tante cose e farle bene non è da tutti. Non durerà molto: dopo questo capolavoro ce ne sarà un altro, “Pirates”, poi per forza di cose anche questa affascinante musicista conoscerà un certo declino, innegabile anche se decoroso. (Luca "Grasshopper" Lapini)