LOCUST FUDGE "Oscillation"
(2018 )
Per fortuna nella vita esistono dischi enormi come questo.
Cose da usare, consumare, mandare a memoria.
Meriterebbero di restarti vicino quando ne hai bisogno, mentre in perfetta solitudine ne godi la perfezione totale, assoluta, irraggiungibile. Che magari è la perfezione solo per te, ma non importa, hai la compagnia che volevi.
Difficile raccontare dischi così, arduo spiegare a parole cosa si celi nelle dieci tracce di “Oscillation” (appena uscito per la Play Loud! Productions), imprevedibile comeback dei Locust Fudge, distopico duo allargato nato a Berlino nel 1991 dalle menti vulcaniche e bislacche di Dirk Dresselhaus (in arte Schneider) e Christopher Uhe (in arte Krite), gente che ne ha viste e suonate di cotte e di crude aux quatre coins du monde a fianco di musicisti che nemmeno avrei spazio per ricordare nelle preghiere della sera. Gente che pubblica due album, mette in pausa la band, si reincarna in un’altra decina di progetti e vent’anni dopo si ritrova a scrivere un disco così.
Enorme, appunto.
Un disco dove tutto è indie, non detestate la trita generalizzazione: per chi lo ama, qua dentro c’è tutto l’indie che serve. Sbilenco, storto, quadrato quando vuole, pigro quando crede, ruvido quando deve.
L’opener la dice già lunga: “Light & Grace” dura undici minuti e mezzo, ed è una tirata tra Yo La Tengo e War On Drugs, un up-tempo elettrico in minore che collassa in due minuti di feedback che manco i Fugazi di “23 Beats Off”. Nemmeno il tempo di chiedersi cosa stia succedendo che la successiva “Come On In” riesuma i Morphine alle prese con i For Carnation in un’allucinata sarabanda percussiva notturna, indocile nenia per l’ora delle streghe. E poi c’è quell’abulico scazzo – scusate, si dice slackness - da Pavement in “Hormones”, guidata dall’indolenza di una chitarra fuzz e spinta a forza verso un chorus abortito che pare una b-side di Lou Reed.
E se i sei minuti di “No Defense” richiamano a forza i Sonic Youth - con l’aggiunta di un sax impazzito da no-wave à la Naked City incastrato lì a far danni fino a strozzarne il finale -, “Relativity Check” con la batteria stravolta di Chikara Aoshima ricorda una versione meno artistoide dei My Bloody Valentine, ripuliti da effetti ed arzigogoli vari.
“Mine Be Thy Love” vaga sulla pulsione jazzata del basso e delle spazzole come una ballad da piano bar, roba sì da Richard Hawley, ma sempre drogata da una qualche accidentale divagazione che la infila a forza in un cunicolo claustrofobico, mentre i sei minuti e mezzo di “Something’s Wrong” sono nulla più di un 4/4 tagliato con l’accetta, slabbrato da una distorsione del basso che smorza solo in parte l’eco insistita di Richmond Fontaine e Calexico: è acqua fresca avvelenata che - sorniona – spiazza e inquieta, specie quando si incunea in un accenno di chorus smozzicato discendente sulle cui rovine il sax passeggia con quasi irridente lievità.
“We shall be released” caracolla spedita su uno sporco boogie incalzante, “Do not go gentle” pennella in due minuti e mezzo à la Violent Femmes una litania da Summer Of Love, preludio alla chiusa della title-track, altri sei minuti à la Wilco che cesellano un morbido commiato fatto di niente: un’aria folk che si inabissa in un registro low-fi, messa lì di sbieco a ricordarti che i fantasmi esistono e che a volte sono in carne ed ossa, proprio come Schneider e Krite. Ritornati da chissà dove, diretti chissà dove. Enormi. (Manuel Maverna)