UNIVERSAL SEX ARENA "Abdita"
(2018 )
Folle, astratto ed articolato né più né meno dei due album che lo hanno preceduto (“Women Will Be Girls” del 2013 e “Romanticitysm” del 2014), “Abdita” segna il ritorno su disco – con qualche aggiustamento nella formazione - del sestetto veneto Universal Sex Arena, questa volta per la label inglese Kowloon: co-prodotti da Maurizio Baggio (The Soft Moon, tanto per fare un nome), negli anni sono stati capaci di attrarre le attenzioni de La Tempesta e di Marco Fasolo, di aprire per i Verdena durante il tour di “Endkadenz”, di prendere parte attiva nel 2015 al tour mondiale dei P.I.L.
Anima e penna della band è Nicola Stefanato, istrionico frontman che bilancia riflessiva compostezza ed animalesca presenza scenica: dalla nascita del gruppo nel 2012 è lui la mente al servizio di una espressività sovraccarica che nel nuovo capitolo assume idee, toni e - soprattutto - sonorità ancora più centrate, venate di una raffinatezza che le discosta almeno in parte dallo spinoso approccio del recente passato.
Lambendo talora lidi zappiani (l’opener “Secret People”), “Abdita” accentua – non so quanto inaspettatamente – il lato colto del suo padre/padrone, sfiorando accenti da Talking Heads nel singolo “Horizon Of Barking Dogs”, che infila un chorus micidiale su una cadenza tanto sbilenca quanto algida, proseguendo con una “One Three” che è quasi Bowie cantato da Brian Molko, chiudendo l’album sul flamenco storto di “Momentum”.
Ripulito dal taglio ruvido e lontanamente psych di “Romanticitysm”, “Abdita” riecheggia, almeno nelle progressioni più sghembe (l’incalzante bailamme meticcio di “The Time Parlour”) ed in un certo insistito caracollare a distanza dalla forma-canzone più tradizionale ed immediata, l’immenso “Quantum Porn” di The Somnambulist, altra peregrinazione labirintica dai pochissimi punti di riferimento. Così, “Radical Leather” (uno dei tre brani con Luca Ferrari alla batteria) esordisce su un rallentamento marziale degno di mr. Warner, restando appesa ad un groove perversamente tetro e suadente; “Easy Beast” è ampia e sinfonica, come dei Muse infilati a forza in un dedalo di trappole disseminate ad arte; “In Palermo You Can’t Have Me” è sboccata e furente, una devastante sassata garage, l’episodio più aggressivo ed irriverente del lotto; “Alongshore The River” è uno scherzo elettronico per rumori e voci distorte, preludio ad una strabiliante “Like Home”, baggy-sound-brit-qualcosa à la Arctic Monkeys impreziosita dal solo di sitar di Elli De Mon.
Disco per larghi tratti inafferrabile ed incatalogabile, “Abdita” è album emblematico di una discografia ondivaga, variegata, impronosticabile: scaltro e multiforme, si nutre di una imprevedibilità che attraversa dodici tracce arricchite da una produzione sontuosa e da una scrittura ovunque in grado di scartare all’improvviso in molteplici direzioni. (Manuel Maverna)