recensioni dischi
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MARK RENNER  "Few traces"
   (2018 )

Immaginate di poter accedere agli appunti privati di un artista, alle bozze incomplete, gli inediti non ancora recuperati da un best of in età avanzata. Sarebbero oggetto di gelosia per ogni compositore; invece, il prolifico Mark Renner, musicista e pittore, ha deciso di regalarci questi appunti intimi in una raccolta. L'album si chiama "Few Traces" (appen auscito per RVNG Intl.), ma le tracce non sono poche: sono 21. Anche se la maggior parte di esse sono piuttosto brevi, tra il minuto e i due di durata. Il materiale è stato creato tra il 1982 e il 1990, e talvolta i segni del tempo si fanno sentire, tra suoni un po' stagionati che ci riportano direttamente negli anni Ottanta, ma non danno fastidio, in questi anni di moda retrofuture e di a e s t h e t i c. Si possono distinguere tre principali filoni in queste tracce. Ci sono una manciata di brani elettronici che esplorano quei synth analogici dal timbro nasale, in "Riverside", "The dyer's hand", "The man & the echo" con suoni in reverse e "The mirror at Saint Andrews", che alle orecchie odierne pare una musica da videogioco vintage, solo con molto più riverbero. In questi brani c'è una componente di lead synth che dirige una melodia, e spesso sono privi di fondamenta ritmiche, mentre in altri avanza una drum machine come nella titletrack "Few Traces". C'è poi una seconda tipologia, quella più ricorrente, di tracce completamente ambientali, senza melodie, come "Ageless", un'atmosfera rilassante tra pianoforte che fa riecheggiare le note sopra i pad, o "Jars of clay", che sembra lontanamente evocare suggestioni giapponesi; altri ambienti sono decisamente meno placidi, come "The ethernal purpose" che propone un continuo suono grave che piacerebbe a Lynch per sonorizzare uno dei suoi incubi visionari. O "The sun in his head, a storm in his heart" dove sopra suoni da Vangelis si sente un attore recita un monologo. "Yeats and the golden dawn" sembra indugiare sul versante meditativo. L'album è concluso da una di queste tracce, "Wounds", che ci lascia respirare tra suoni sintetici che sembrano propagarsi in un campo di grano ventilato. C'è poi un terzo tipo di musiche raccolte, dove invece protagonista è la chitarra, e a volte Renner ci concede di ascoltarlo cantare. "Saints and sages" è un new wave rock con chitarra in jingle jangle, ma è "Half a heart" che si presenta strutturata come una vera e propria forma canzone, con strofa e ritornello. "Princes Street" è uno strumentale dove la chitarra elettrica pulita esegue arpeggi e melodia. Ci sono anche canzoni che si distaccano completamente dal resto, come "The wild house" che è un deciso e coinvolgente country rock che ricorda l'intenzione beat anni '60. O "James Cowie (the Portrait Group)", che è un 3/4 guidato da fiati (sintetizzati) che sembrano la colonna sonora di una fiaba in musicassetta; ed infine, al centro della raccolta, "The fountain in the cloister", sopra una base di arpeggiatore, fa improvvisare una tromba muta. La creatività e la versatilità di Mark Renner sono davvero notevoli, e la forza di questo "Few Traces" sta proprio nell'aver mescolato disordinatamente tutto questo materiale, per dare l'idea di quante potenzialità abbia questo artista tuttora attivo. (Gilberto Ongaro)