recensioni dischi
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MINOR/MINOR  "Minor/Minor"
   (2017 )

Dal Belgio arriva una novità dirompente sulla scena alt rock. Con un sound che prende chiaramente spunto dai Muse, ma portato in altre direzioni, i Minor/Minor portano avanti quell'idea di un rock drammatico e di forte impatto, e questo stile aveva proprio bisogno di una rinfrescata, dal momento che il trio londinese sta ormai esaurendo le cartucce diventando la propria parodia. E così, nell'album d'esordio, che si chiama come loro, troviamo pesanti riff di chitarra in brani come "22/22", nel potente ritornello di "Another world" e altrove, e basso distorto ed effettato. In "Body Corp" la band a fine misura effettua le classiche terzine da spavento (anche se la zona centrale è più calma, con chitarra pulita). In "Dangerous games" viene inizialmente spenta la distorsione, ma non l'agitazione latente. Curiosamente, nell'arrangiamento spicca un mandolino. Nel finale troviamo basso distorto e chitarra ritmica all'unisono in maniera violenta, come nel finale di "Micro Cuts" dei Muse. Ciò che li distanzia fortemente dal power trio di Bellamy è la voce, più roca e meno tendente al teatrale, ma non per questo scevra da intensità interpretativa. Non ci sono virtuosismi solistici, ma l'assolo di "Sun", seppur semplice, è poderoso ed efficace. Il suono abrasivo di "Back to my mind" incontra in strofa un timbro sperimentale incastrato in un arpeggio inquietante, mentre il basso di "Broken Machine" ha un suono per l'appunto "rotto", tanto da ricordare le distorsioni sature di Trent Reznor. Qui e in altre canzoni la voce è sorretta da ampi cori. "Void" invece non ottiene la stessa potenza tramite artifici di effetti: è semplicemente una rozza sberla, suonata fortissimo. I testi, come in questo caso, parlano di disagi, di voglia di vomitare, "I'm sick of this shit". "Dolls" è il secondo pezzo più lento, ma ancor più drammatico. "You are my Barbie, and I'm your Ken". Ben lontani dai giocosi doppi sensi di "Barbie girl" degli Aqua, la coppia di bambole è quella di due persone reali, che vivono una relazione finta "in a fake world", dove i comportamenti sono prefissati e non sinceri. Dopo un crescendo inesorabile, la voce fa esplodere un urlo graffiato da brividi, e la sessione strumentale è carica di pathos. Anche "The beast" ha una breve parte tranquilla nel mezzo, ma è solo funzionale a far uscire la bestia "Release the beast that takes over you". E si esplode nuovamente, tra vaghe dissonanze nei lick ritmici. Conclude l'album dinamitardo "Danny Glover". Un'ultima scarica elettrica piena di energia ci saluta, lasciandoci la voglia di averne ancora. Caratteristica peculiare dell'album è che tutte le tracce, ma proprio tutte, sono incollate fra loro, per ascoltare un unico flusso sonoro che non lascia scampo, e far mangiare le canzoni una dopo l'altra come ciliegie. Scelta condivisibile, poiché lo stile è talmente coerente, granitico e monolitico, che è inutile lasciare troppe pause tra un pezzo e l'altro. (Gilberto Ongaro)