recensioni dischi
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ANT ABUSERS  "Damn women damn alcohol "
   (2017 )

Gli Ant Abusers debuttano nel 2014 e impiegano quasi tre anni per incidere questo album, “Damn Women Damn Alcohol”, dato alle stampe dopo una lunga esperienza tra rockabilly e hardcore, dentro e fuori dai palchi, e da vere rockstar parlano di alcol, donne, tournée e speranze a volte avveratesi a volte solamente inseguite a vuoto. Ciò che ne risulta è un disco apprezzabile, pieno di sfumature interessanti ed estremamente originale.

“Beach Type Tamarro”, il brano d’apertura del disco, imposta sin da subito il livello sul quale il disco si muoverà: la ricerca sonora è ambiziosa e sincera, il passo successivo è imprevedibile e sempre emozionante, la band attenta e precisa. Le chitarre si incrociano con una batteria sfrenata e la voce sfiora quasi tendenze metal. L’atmosfera è carica e calda: il gruppo non lascia nulla al caso e cura il suono e l’arrangiamento con accortezza e passione. “Capota’s Shelter” alza ancora un poco l’asticella: il rock classico è contaminato dalle tante strade che la band ha percorso in passato e sta ancora percorrendo – rockabilly, hardcore, punk – e da ciò esce fuori un mix interessante e fortemente innovativo. “Born to Lose” continua a espandere il messaggio principale del disco, ossia comporre bella musica divertendosi e tributando le fonti di ispirazione: in questo caso il punto di riferimento è Springsteen, ammirato e parodiato ironicamente al tempo stesso e riecheggiato nel titolo; ma si percepiscono anche influenze new-wave, come quelle dei Crime & City Solution o dei Monochrome Set. “Pigeon Blues” abbraccia il surf rock dei Butthole Surfers, a metà tra inno serissimo e affermazione demenziale di una mancanza di ideali ormai diffusa e difficilmente arginabile. “Damn Women” è uno dei pezzi dove è maggiormente evidente il mix curioso e spontaneo tra rockabilly e new wave: la voce segue una sua linea melodica mentre chitarre e batterie si rincorrono vorticosamente senza ritrovarsi mai. E così si chiude la prima metà del disco.

La seconda parte non cambia registro e dimostra che la band ha un’idea e una coerenza di fondo decise e studiate. “About the Meaning of Life” esplora il lato più “hard” della band come in parallelo aveva fatto il primo pezzo del disco; “Slavedriver” è più cauta e melodica, ma non rinuncia a esplosioni sonore di rilievo: la voce new wave è splendida e dà un colorito tutto suo al brano. “Madrid! Madrid!” e “Rocknrollin’ Motherfuckers” sono due gemelle nel genere ma presentate con una veste leggermente diversa: la prima è più spagnoleggiante mentre la seconda è più british, ma entrambe danno l’idea di cosa questa band può creare dando un così grande risalto a batterie e voci, lasciando quasi a riposo la chitarra. La chiusura è lasciata a “Pop Whores”, divertente e sprezzante, cinica e schietta, irriverente nel testo e ribelle nella musica, che suggella in maniera perentoria e onesta un album bello e leggero, mai troppo serioso e mai troppo prevedibile. (Samuele Conficoni)