GIAMPAOLO SCATOZZA "Travels"
(2017 )
Registrato a Roma in trio, ma ricco di ospiti e collaborazioni esaltanti, il nuovo album di Giampaolo Scatozza (appena uscito per Cultural Bridge) fonde jazz contemporaneo e musica elettronica minimalista che si concentra sul dettaglio. Il suono dell’album è caldo e avvolgente, nessuna nota è di troppo e tutto l’insieme crea un’atmosfera soffusa e dolcemente ipnotica.
Se nella scena contemporanea è difficile rintracciare una linea predominante tra le tantissime tendenze jazz che esistono, è sicuramente possibile nominare alcuni personaggi indubbiamente geniali che dominano la scena e sono universalmente acclamati come grandi interpreti del genere: su tutti il geniale Kamasi Washington, seguito da Gregory Portman, dall’ormai canonizzato Wadada Leo Smith e da tanti ottimi musicisti acid da anni al fianco di John Zorn. La scena italiana si ispira inevitabilmente a qualcuno dei nomi sopra riportati – anche perché sarebbe impossibile fare jazz oggi senza avere presente, per dirne uno, Kamasi, perché sta dettando la linea già da diversi anni, quando comparve come session man per “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar – e a molti dei giganti del passato – Coltrane e Davis i più ammirati, Mingus e Coleman i più studiati – ma sa avere una dimensione tutta sua, dignitosa e vellutata, piena di sfumature personali davvero notevoli.
Giampaolo Scatozza, che pure è più conosciuto come batterista turnista che come compositore – e qui infatti suona la batteria –, ci offre un affresco sapiente ed esaltante di cosa accade quando il jazz incontra alcuni elementi dell’elettronica. La title track “Travels”, che apre l’album, offre da sola il piatto completo che attende l’ascoltatore: note accennate, sussurrate all’orecchio, intervallate da inseguimenti furiosi di basso e percussioni, la fanno da padrona e diffondono un sentimento di calma rassicurante ma passeggera.
Con alle spalle collaborazioni di lusso (Tom Jones, Paul Young, Medeski) e una carriera di alto livello, nei lavori precedenti Scatozza aveva lavorato prevalentemente su avanguardia elettronica, accenni della quale sono ascoltabili in “Deeper”, che assume a tratti l’andamento e la musicalità di certi episodi di John Zorn e The Dreamers, in particolare del “Book of Angels 14 – Ipos”; qui, invece, predilige seguire le orme del jazz classico e omaggiare alcuni dei grandi di oggi e del passato, dal già citato Washington alle note melanconiche della “moglie d’arte” Alice Coltrane, il cui recente disco retrospettivo “The Estatic Music of Alice Coltrane” apre non mondi ma universi. Ma si sente l’impronta di altri nomi meno in voga, come quella dei sempre attivi Yellowjackets, in particolare in “9:39”, dal classico andamento bebop, forse la linea più influente negli ultimi decenni all’interno del jazz, o quella del quartetto di Dave Brubeck in “Waitin’” e in “The Door”.
L’elettronica onirica dei Boards of Canada è percepibile in “Waiting for You”, impreziosita da una scarna ma lacerante voce femminile; cantata è anche “I Walk the Line”, dove c’è poco jazz e tanta elettronica, che mescola anche in questo caso influenze contemporanee (Solange, Kelela, Esperanza Spalding) a classici del passato (Kraftwerk, Gottsching o addirittura Underworld). Accenni di classicità che ammiccano all’Eric Dolphy di “Out to Lunch” sono presenti nella bellissima “A Love Song”.
La chiusura del disco è affidata ad altri due episodi che mescolano jazz ed elettronica: il primo, “Scuola d’Italiano”, vede la predominanza dell’elettronica e un utilizzo avanguardistico della strumentazione, con una voce à la Meredith Monk che si arrampica sui pendii più esagerati del sax; il secondo, invece, “All I Want”, che chiude l’album, vede la predominanza di un modern jazz rilassato, composto, emozionante, che fa meditare e riposare al tempo stesso, e dimostra ulteriormente quanto questo disco sia versatile e qualitativamente alto: forse uno dei migliori album pubblicati in Italia quest’anno.
(Samuele Conficoni)