CAPAREZZA "Prisoner 709"
(2017 )
Caparezza non si era mai messo a nudo neppure quando rappava in prima persona, di volta in volta interpretava parti diverse in cui lui non era lui (come ne "La mia parte intollerante", canzone che il Capa ha spiegato più volte non essere autobiografica). Adesso invece, Michele (o Caparezza) decide di parlare davvero di sé. Il dubbio se attribuire l'idea al personaggio Caparezza o alla persona Michele Salvemini è solo uno dei tanti enigmi che contiene questa settima (o nona) fatica, "Prisoner 709". Avrete già letto in giro che "709" sta per "7 o 9", sette oppure nove, sette lettere come Michele o nove come Caparezza. Tutto quest'album è strutturato in maniera bipolare, dalla copertina in bianco e nero alla presenza di canzoni che affrontano l'angoscia ed altre che ricercano la leggerezza. Perfino la scelta di uscire con due videoclip in contemporanea, uno cupo e uno allegro, rientra in questo percorso. Alcuni concetti accennati in precedenza ora qui vengono approfonditi. Da "La prospettiva" ("Museica", 2014), dove l'artista reclamava il bisogno di una prospettiva per il futuro, e il coro gli rispondeva: "Dicci tu qual è la prospettiva", e lui: "Io canto e basta", adesso si arriva a "Sogno di potere", dove Caparezza lamenta: "Tutti mi vogliono risolutivo ed è una tragedia". Ed anche in uno dei due brani scelti per i videoclip, "Ti fa stare bene", il prigioniero pugliese desidera scappare: "Sono evaso dal ruolo ingabbiato di artista engagé", cioè artista politicamente e/o socialmente impegnato. Questo potrebbe essere un colpo per molti fan "militanti", che lo seguono magari proprio per essere rimasto uno dei pochi artisti in Italia a non volersi limitare a parlare di sole-cuore-amore. Però, a dire il vero, da questo punto di vista non c'è da temere, visto il resto delle canzoni e la consueta coltissima serie di citazioni e riferimenti all'epica classica ("La caduta di Atlante"), al cinema, alla letteratura e alla televisione; una mole impossibile da riportare tutta qui. Nonostante questa voglia di libertà e di leggerezza, legittima per uno come Caparezza che non ha mai risparmiato colpi ai politici né al malcostume dell'italiano medio, c'è ancora lo sguardo alla realtà contemporanea. "L'uomo che premette" è un gioco di parole tra il presente indicativo di "premettere" e il passato remoto di "premere", e raccoglie tutte quelle dichiarazioni che vengono fatte in premessa ad un discorso carico d'odio, fra cui la più famosa (e mai citata nel testo) è: "Non sono razzista, ma...". La critica è verso tutti noi, perché nessuno è escluso da questo pregiudizio verso gli altri: "Cerchi l'uomo che premette? Che premette il grilletto / lascia stare le celle, dai un'occhiata allo specchio". Il fatto è che, forse, anche a Salvemini pesa l'inefficacia delle proprie rime; dice che si tratta di "musica pericolosa per finta", su cui altri ci guadagnano: "Sulle mie note qualcuno ci sniffa". Però la maggior parte dei pezzi si concentra sull'introspezione interiore; in "Prisoner" asserisce: "Io sono il disco, non chi lo canta", riferendosi a quel "O" tra 7 e 9 in 709. Attribuire la voce che ascoltiamo a una o all'altra personalità è compito nostro. Emblematico il brano "Forever Jung", dove afferma che "Il rap è psicoterapia", e così inizia l'analisi assieme ai padri della psicanalisi, Freud e il suo mentore Jung. Nel pezzo tra l'altro c'è un grande ospite, Run DMC! Un altro featuring sorprendente è quello presente nell'intro "Prosopagnosia" e nel breve rap "Minimoog": John De Leo, noto ai più per essere stato la voce degli eclettici Quintorigo. L'eclettismo musicale anche stavolta caratterizza le tracce di Caparezza: il rock, a tratti nu metal, si mescola ad assoli di tromba, parti cantate a vocoder, suoni elettronici e pure inserti orchestrali da colonna sonora, il tutto fa come al solito dimenticare di ascoltare un rapper, in assenza di veri e propri "flow" sostituiti da ricchi arrangiamenti. Gli inserti orchestrali sono in "Autoipnosi", brano molto suggestivo in cui il nostro eroe viene ipnotizzato dal tergicristalli mentre guida, ed esplora così le pieghe del subconscio, dove con un gioco di parole allucinante si trova a scrutare un mare cristallino come un "sub conscio". C'è una risposta ai dubbi che ci affliggono tutti? Caparezza ne "La chiave" ci dice di sì, e lo dice soprattutto a sé stesso, con un testo rivolto "a te" ma allo specchio: "Facciamo viaggi astrali con i crani tra le mani, abbiamo planetari tra le ossa parietali". Righe così funamboliche non se ne leggevano da "costruisco tufo su tufo un futuro che mi vede ufo"! Il divertissement di "Devo scrivere un testo" che si fa quindi metatesto, esplica la volontà di arrivare al testo perfetto: "Il testo che giuro vi stupirà, il testo della mia maturità, inteso non come maturità quinta liceo". Il seme dell'angoscia però per Caparezza è stato quello del disturbo che ha scoperto di soffrire: dal 2015 convive con l'acufene, un ronzio che genera il cervello e che lo affliggerà per il resto dei suoi giorni. Chi lo soffre sa di cosa si parla, e non so con quale forza il Capa sia riuscito a dedicargli una canzone ("Larsen"). Chiudiamo l'analisi su due pezzi legati: "Confusianesimo" e "L'infinito". Per la prima volta Caparezza confessa di avere un "bisogno spirituale", seppur non legato a dottrine religiose: "Anche gli scettici cercano una risposta". Però, e non si sa se sia ironico o meno, Caparezza conclude che dobbiamo accettare che in realtà siamo tutti in una finzione come in "Matrix", e che se ipoteticamente fossimo una realizzazione virtuale aliena, in realtà per gli alieni saremmo noi a non esistere, in quanto appunto virtuali. Ancora una volta Caparezza sorprende, e già nel web si possono leggere fior fiori di interpretazioni dei singoli versi, così pregni di contenuti. La forza di non lasciarsi andare alla depressione per le proprie sofferenze è anche dovuta al fatto che, probabilmente, Salvemini avverte l'affetto degli estimatori e l'approvazione generale, per cui, come scrive: "Non ha senso recitare la parte degli incompresi, con tutti dalla tua parte, tutti così cortesi". (Gilberto Ongaro)