recensioni dischi
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KRAFT  "Harvest of despair"
   (2017 )

1932-33, Ucraina. Stalin attuava delle politiche repressive, requisizioni di grano ed esportazioni forzate; questo portò ad una "carestia artificiale" e la popolazione ucraina in 13 anni diminuì di 2 milioni. Questo è lo sfondo storico sul quale si basa il lavoro di Kraft "Harvest of Despair" (uscito per la Opa Loka Records), il cui titolo deriva da un omonimo documentario che parla di tale lenta tragedia, che diversi governi oggi considerano un genocidio a tutti gli effetti; il dibattito è ancora aperto. Kraft, al secolo Robert Hofman, crea suggestioni orrorifiche, ambienti tetri, e soprattutto un uso smodato (e forse a tratti davvero eccessivo) dell'eco, la ripetizione ossessiva della maggior parte dei suoni che costituiscono i brani. Un rimbalzo costante ci ipnotizza fino a mollare le difese e lasciarci trascinare in un'angoscia sonora, affascinante nel suo senso di grandezza. Tutti i brani presentano caratteristiche costanti, drones e pad, con alcuni elementi che caratterizzano i singoli capitoli: ci sono brani jazz rallentati fino ad essere irriconoscibili, tremolii continui, malinconiche fisarmoniche in lontananza, suoni di vetro, di legno, campanelli, rumori industriali, scatti di macchine fotografiche analogiche, nitriti di cavalli spaventati e i loro zoccoli, sussurri che invitano al silenzio... e il saccheggio di musiche anni '30. Queste evocazioni distorte di musiche appartenenti a quegli anni difficili, sembrano rappresentare delle lontane eco di ciò che poteva provenire dall'occidente, filtrato dalle sbarre mentali e fisiche dell'Unione Sovietica. Più volte siamo abbandonati al ronzio di un nugolo di mosche. Poche parole compaiono nella musica, e nella maggior parte dei casi sono recitazioni di poesie annichilenti: "No fortune, fun, no fairytale / no love, no life, no holy grail". Un'altra poesia è presente nella traccia di chiusura "Zapovit", che significa "Testamento": presenta una voce femminile che declama probabilmente le proprie volontà. In "Maugre" una voce, che pronuncia un conto alla rovescia, si incanta sempre sul five e ricomincia, e il disorientamento continua; ma è "The Wake" il momento più commovente. Il brano sviluppa una melodia disperata, suonata con enfasi teatrale da un suono modificato di fisarmonica (forse), e questo tema tristissimo - e meraviglioso - viene accompagnato da altri suoni industriali che non lasciano fiato. Mescolando il romantico e l'agghiacciante, si raggiunge davvero il sublime. Quest'opera, intrisa in maniera malcelata di una certa retorica, fa immaginare cosa dev'essere stato vivere sotto una dittatura che stabiliva persino quando dovevi morire di fame. Sconsigliato agli impazienti, piacerà invece ai più sensibili. (Gilberto Ongaro)