JETHRO TULL "Stand up"
(1969 )
Mi ci è battuto l’occhio spesso su quei poster verde oliva con la semplice scritta “Jethro Tull”, ma pensavo che fosse l’ennesima “tribute band”: ce ne sono così tante in giro che a volte pare di essere in pieni anni ’70. Poi, dove meno te lo aspetti, un servizio sul Tg regionale, ed eccolo lì, il Pifferaio Magico, proprio quello vero, prossimamente dalle mie parti ad incantare teatri e stadi, alla faccia dei suoi sessant’anni, anzi forse ringalluzzito dopo il Live8, vero trionfo della gerontocrazia musicale.
Ian Anderson e soci dunque non hanno ancora smesso di deliziare gli orecchi dei buongustai con il loro personalissimo progressive-rock, basato sulla straordinaria versatilità di uno strumento più tipico della musica classica che del rock: il flauto. Jethro Tull per molti significa “Aqualung”, il loro capolavoro universalmente riconosciuto. Ma non l’unico: già da questo eccellente “Stand Up” (1969) il flauto di Ian Anderson si dimostra capace di regalare le sensazioni più svariate: dallo stupendo idillio pastorale di “Reasons For Waiting” ai toni orientali da incantatore di serpenti in “Fat Man”, dai lievi soffi vagamente andini in “A New Day Yesterday” alle reminiscenze medievali della bellissima “Jeffrey Goes To Leicester Square”, che ha il solo difetto di essere troppo corta.
Centrare tutta l’attenzione sul flauto però sarebbe un grosso sbaglio: se il Pifferaio Magico può dare sfogo a tutta la sua fantasia lo deve anche ad una robusta base sonora che fa da contrappeso alla naturale leggerezza dello strumento a fiato. Clive Bunker (batteria), Glen Cornick (basso) e Martin Barre (chitarra elettrica) non saranno nomi da urlo, ma messi insieme forniscono ai Jethro Tull quell’inconfondibile suono un po’ jazzato, ma ricco di elementi folk, che è il terreno naturale per gli svolazzi di Anderson.
Così non deve sorprendere se potenti rock come “A New Day Yesterday”, con il suo giro ipnotico di basso, o come “Nothing Is Easy”, con le sue tipiche accelerazioni e frenate scandite dalla batteria, per non dire della complessa “For A Thousand Mothers”, decisamente orientata verso sonorità hard, sono già interessanti di per sé stessi, a prescindere dal tocco di classe del flauto. E così il fascino esotico di “Fat Man” deriva soprattutto dalla vivacità di percussioni e carabattole varie, tra cui perfino una balalaika. Anche “We Used To Know” è già di per sé una stupenda ballata acustica, sulla quale poi Ian Anderson ricama i suoi raffinati disegni.
Insomma, come si suol dire, c’è parecchia ciccia, nel senso di sostanza: un bel suono corposo e non poca fantasia compositiva. E dove non arriva l’inventiva di Anderson & C. si ricorre a quella fonte inesauribile di nome Bach (non a caso “ruscello” in tedesco). Ecco quindi sbucare tra i titoli un nome curioso: “Bourée”. Dal primo ‘700 ai giorni nostri ha perso una erre, ma è proprio lei: la Bourrée dalla Suite per liuto BWV 996 di Johann Sebastian Bach, di regola attualmente suonata per chitarra, visto che il liuto ce l’hanno solo Branduardi e pochi altri menestrelli.
Di solito i classicomani come me aborrono la riproposizione di musica classica in versione rock, anche se ben fatta tecnicamente come nel caso di Emerson Lake & Palmer, ma qui i Jethro Tull hanno fatto il miracolo, rispettando l’originale senza scopiazzarlo. Per far questo si sono comportati da jazzisti: il bellissimo inciso serve come base da cui lanciarsi in fantasiose e intelligenti variazioni che vedono folleggiare il flauto di Anderson, qui davvero fatato. Il ritorno al tema di Bach avviene quando ormai se n’era persa ogni traccia: è il bello delle variazioni, ed è un ulteriore segno della serietà e della preparazione di questi musicisti. La “Bourée” bachiana è la ciliegina sulla torta di un disco già di suo di grandissima qualità. (Luca "Grasshopper" Lapini)