recensioni dischi
   torna all'elenco


JOHN COLTRANE  "Crescent"
   (1964 )

La versatilità, con relativa padronanza assoluta degli stili più diversi, è uno dei segni distintivi dei grandi musicisti di ogni epoca. Tra il Beethoven del 1808 e il John Coltrane del 1964 neanche il musicologo più ardito troverebbe una minima affinità musicale, eppure in entrambi i casi siamo di fronte ad un saggio di versatilità così lampante e assoluto da rasentare l’incredibile. Il tutto, sia ben chiaro, rispettando ossequiosamente le gerarchie ormai consolidate: nessuna lesa maestà ai danni di Beethoven, ci mancherebbe (sarebbe il colmo da parte di un classicomane come il sottoscritto).

Dunque, nel 1808 Beethoven presenta nello stesso concerto la Quinta Sinfonia, che è come un maestoso e travolgente turbine di forti emozioni, e l’idilliaca Sesta “Pastorale”, quieto ed equilibrato capolavoro di segno totalmente opposto. Bene, nel 1964 un John Coltrane al massimo della sua creatività dà pieno sfogo a tutti gli stati d’animo che un sassofono può umanamente esprimere e tira fuori quel monumento all’improvvisazione in quattro tempi, noto come “A Love Supreme”, in cui l’urgenza di espressione diretta si manifesta con ogni mezzo, ivi compresi strilli, singhiozzi, borbottii e perfino la voce stessa, che ripete la frase “A Love Supreme” come in una preghiera (e in effetti quella suite altro non è che un personalissimo canto di lode a Dio).

Lo stesso John Coltrane, sempre in quell’anno di grazia, ci regala anche un disco di raro pregio, molto più convenzionale e come tale destinato ad essere oscurato dal lavoro più innovativo, ma non per questo meno perfetto nella sua composizione e nella sua realizzazione. “Crescent” contiene 5 brani che sembrano messi lì a dimostrare che il sax non è detto che debba per forza gemere e contorcersi, ma può anche sprigionare una forza più calma e in un certo senso più “razionale”. Il risultato è una sorprendente cantabilità che rende questo album facilmente comprensibile anche ai non jazzofili, per i quali certe spigolosità di “A Love Supreme” (per non parlare di “Ascension”) potrebbero rivelarsi un po’ ostiche.

La formazione è il quartetto ideale degli anni ’60, probabilmente il migliore di cui Coltrane abbia mai potuto disporre: McCoy Tyner al pianoforte, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria. Band di grande livello, ma con menzione particolare per il pianista: Tyner è davvero molto di più di un accompagnatore, ed il suo tocco personale e raffinato innumerevoli volte si fonde alla perfezione con le note calde e avvolgenti del sax tenore di John Coltrane, per creare meravigliosi effetti notturni.

“Crescent” si distingue per la sua concentrazione di “ballads” o comunque di lenti intriganti, rispetto agli album precedenti, in cui Coltrane non è stato prodigo di brani di questo tipo. Il che rafforza l’ipotesi che questo disco sia stato un po’ la sua “Pastorale”, il luogo ideale dove le passioni violente di “A Love Supreme” venivano dolcemente stemperate. Volendo trovare un riferimento viene automatico pensare all’immortale “Naima”, da “Giant Steps” (che però era un fatato momento di estasi in mezzo ad una folla di brani più o meno frenetici).

Si comincia con l’affascinante “lento sostenuto” che dà il titolo all’album: la breve, struggente introduzione di “Crescent” mette subito in chiaro che quella melodia notturna e cantabile è l’ossatura del brano, e non sarà snaturata neanche dai successivi e fantasiosi fraseggi del sax, che pure a tratti sembra perdersi in strade estremamente lontane dal tema iniziale, ma poi finisce per adagiarsi su una serie di note lunghe che portano alla sontuosa ripresa dell’ispiratissimo tema iniziale, che infine si spegne in un fruscio di piatti dell’ottimo Elvin Jones.

Poi è McCoy Tyner che introduce da maestro “Wise One”, fino alla sensuale entrata di un sax dal suono più che mai carnoso, con sullo sfondo un lieve scintillio di piatti e di rarefatte note di pianoforte. Inizio magico di una “ballad” che mantiene le promesse anche dopo l’entrata in scena della base ritmica. Un ritmo blando e vagamente latino prepara il terreno prima a sobrie ma limpide note di pianoforte, quindi ad un lungo assolo di sax, con pochi svolazzi ma di grande qualità. Anche qui suggestiva la chiusura in dissolvenza, con magistrale ripresa del sensuale motivo introduttivo.

“Bessie’s Blues” è una breve pausa, ma non di riflessione, bensì di accelerazione. Cadenze da vecchio swing offrono lo spazio per due brillanti interventi di un Coltrane insolitamente “ragionatore”, sempre ben sostenuto dall’ottimo McCoy Tyner. Ecco quindi un’altra languida “ballad” dal fascino cupo e notturno: “Lonnie’s Lament”. L’intesa tra sax e pianoforte è come al solito perfetta nell’introduzione, e di grande effetto scenico è anche lo sfondo dei piatti, spazzolati. Poi basso e batteria disegnano un ritmo appena sostenuto, su cui prima McCoy Tyner furoreggia con un assolo fatto di note inquietanti e a tratti quasi sinistre, quindi esce allo scoperto con la sua voce vibrante e profonda il basso di Garrison, impegnato in un lungo dialogo con sé stesso, troncato quasi di netto dal sax, che riprende il bel motivo principale, che a dispetto del titolo è tutt’altro che “lamentoso” anche se un po’ triste.

“The Drum Thing” chiude il disco con un’inconsueto dialogo tra le percussioni tribali di Elvin Jones e le note lunghe, strascicate fino a dare una vaga idea di canto mediorientale, del sax di Coltrane. Poi i tamburi si impongono con decisione, in un selvaggio crescendo che sembra anticipare di una ventina d’anni certe atmosfere africane di Peter Gabriel. Qui Elvin Jones vive senz’altro il suo momento di gloria, interrotto solo dalla ripresa della dolce cantilena del sax. Forse l’unico brano “non fischiettabile” del disco, ma comunque di grande fascino esotico ed estremamente moderno.

Non c’è che dire: un disco da incorniciare, consigliato vivamente a chi vuol scoprire il lato più classico del poliedrico e innovatore John Coltrane. (Luca "Grasshopper" Lapini)