recensioni dischi
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BRUCE SPRINGSTEEN  "The river"
   (1980 )

Un doppio album che suggella un periodo memorabile per il songwriter di Freehold, New Jersey, perfetta summa di quanto aveva espresso nei precedenti lavori (da "The Wild, The Innocent and The E-Street Shuffle" a "Darkness on the Edge of Town") e di ciò che sarebbe emerso nei successivi: il senso di impotenza e sconfitta nei confronti della vita, il rimpianto di fronte a un passato che non si può cambiare, ma nonostante tutto, nonostante le ferite nere scavate nel profondo da "Nebraska", nonostante il timore dell'oscurità che ci circonda, la speranza riposta nella danza, nella capacità di tenere acceso un piccolo fiammifero alla cui luce sognare, pur se rattrappiti dal freddo e in procinto di lasciare la presa. A oltre vent'anni di distanza, c'è da invidiare coloro che avranno l'opportunità di aprire per la prima volta questo scrigno di meraviglie e sentirne il calore, esperire l'estasi della fantasia al potere, del corpo in libero e suadente movimento, avvolto nella catarsi della danza. Il supporto dell'artista americano è a dir poco strepitoso, la E-Street Band è forse una delle più coese e imbattibili rock-machine di sempre: Clarence Clemons al sassofono, Roy Bittan al piano, Steve Van Zandt alla chitarra, Max Weinberg alla batteria, Danny Federici all'organo e Garry Tallent al basso cesellano meraviglie, tanto nella potenza del rock più irriverente e scanzonato quanto nella mestizia amara delle ballate, riuscendo ad apparire tutti strepitosi allo stesso modo in quanto privi di qualsiasi virtuosismo individualista. Il calore di un amore nuovo e palpitante concede brevi momenti di felicità ("Two Hearts"), la volontà tutta giovanile di cambiare il mondo risolleva d'animo regalando sogni ("Independence Day"), ma la disillusione non scompare. "The River" (la canzone) chiude la prima metà dell'opera in una maniera tanto bella quanto commovente e sincera; Springsteen tratteggia, in poche parole sorrette dal piano di Bittan, due intere vite, come tante, l'incontro, l'amore, la gravidanza prematura, il matrimonio frettoloso sotto gli occhi crudeli della comunità, il declino del sentimento, l'ossessione del passato che ritorna. La seconda parte sembra incupirsi ancor di più, chiudendosi in un intimismo del cuore che accende pure emozioni. La stanchezza rassegnata di "Point Blank", dove "you wake up and you're dying and you don't even know what from", la rinascita del sentimento non importa a che età di "Fade Away", il suo venir soffocato dalla noia di "Stolen Car", la fuga come possibile riscatto negli accenti gospel di "Drive All Night", la crudeltà di un destino che troppo spesso ci ruba quel poco che abbiamo ("Wreck on the Highway"). Non mancano comunque gli episodi più gai e gioiosi, su tutte una "Ramrod" che dal vivo farà scintille con la sua irresistibile ironia. L'arte del ramingo rocker americano ci trascina per oltre ottanta minuti tra rovine di periferia e uomini piegati sulle ginocchia dal peso dell'esistenza e impossibili futuri sognati. Alla fine, comunque, rimane sempre quell'auto parcheggiata là fuori, da rubare forse, ma con cui lanciarsi a tutta velocità nel buio della notte, percorrendo nuove autostrade verso mondi migliori, ma è pura poesia. (Lorenzo Bazzani)