M.W. WILD "The third decade"
(2017 )
Dopo lunghi anni come leader dei Cascades (band esistente dal 1988, da non confondersi con l'omonimo gruppo degli anni '60), il cantante M.W. Wild debutta da solista con l'album "The third decade", che riconferma la propria appartenenza al genere gothic rock con tutti i suoi stilemi in evidenza: riff pesanti di chitarra, tastiere onnipresenti con predilezione dei suoni corali, ritmi regolari vagamente ammiccanti all'industrial, e soprattutto la voce baritonale di Wild, che scava nella sensibilità dell'ascoltatore come solo le voci dai registri bassi sanno fare. La titletrack è sorretta da piccoli incisi di pianoforte che fanno pensare alla seconda versione di "Enjoy the silence" dei Depeche Mode, quella del 2004. La consistenza generale però è più robusta; in "Marionettes" spicca un tema misterioso di tastiera, e su "Nobody" Wild ci enuncia la sua grande apertura ai sentimenti umani: "I wanna love nobody but me!". La cupezza sonora e testuale continua in "Dark all over". "Mirrors" mette un po' più in evidenza l'arrangiamento elettronico, e ci concede una pausa dalla pienezza sonora pressoché uniforme in quasi tutto l'album: distorsione di chitarra un po' più abbassata, per evidenziare un suono con più effetti diversi. La pausa dal sound roboante continua anche grazie a "Spring Again", che presenta una chitarra acustica e una melodia cantata quasi bowiana, e l'oscurità angosciosa si trasforma in semplice malinconia incantata, e forse è il pezzo migliore dell'LP. "Fly with angels" ci è presentata dalla voce recitante di Wild che poi fa tornare sul percorso tracciato in precedenza, tornano le chitarre pesanti e le tastiere con cori. Anche il cantato dei ritornelli è quasi sempre condito con doppie o triple voci. "Russian roulette" accelera leggermente i battiti, mentre "Turning Leaf" è la terza sorpresa. Un pianoforte ci prepara ad ascoltare un andante carico di pathos e sospiri vissuti; il brano resta solo un piano-e-voce fino a quasi il quarto minuto, che viene poi investito dalla band e da un piccolo assolo di chitarra. Chiude l'album "Danubia", introdotta dalla voce di Wild che si fa nuovamente narrante (una narrazione da incubo), e la band ci saluta con l'ultimo brano composto con la stessa formula gothic rock spiegata di sopra, che ora però ci fa piacere riascoltare dopo queste variazioni ascoltate nella seconda metà del lavoro. E' una fortuna che ci siano quelle tre divagazioni, perché questa formula, oltre ad omogeneizzare la commistione dei suoni - che comunque costituisce il genere di per sé - piega le canzoni anche ad avere la stessa struttura, rendendo l'avvento di strofe-ritornelli-strofe-ritornelli-pronti una situazione piuttosto prevedibile; ed è un rischio da non correre, se si vuole seguire l'intento dichiarato di eludere il mainstream. Comunque, ponendo l'attenzione alla profondità della voce di Wild e ai suoi affascinanti racconti, la ripetitività degli arrangiamenti cala in secondo piano. (Gilberto Ongaro)