DESCENDANTS OF CAIN "Conversations with mirrors"
(2017 )
Una delicata eco di shoegaze si fonde a un rock spregiudicato, aggressivo ma mai troppo ruvido, mentre la dolcezza degli arrangiamenti in chiave sinfonica rende questo album dei Descendants of Cain – band londinese dalle ottime capacità tecniche e dalla grande inventiva – un esperimento originale, senza troppe similitudini in giro per il mondo attualmente, che offre spunti interessanti anche per quanto riguarda il percorso futuro del gruppo.
L’impianto epico, pieno delle vertigini di un metal sinfonico che però non è metal, caratterizza sin da subito l’album, che in “Shapes in the Mist” trova una perfetta introduzione all’intero concetto che è dietro all’opera: melodie chiare, sempre in primo piano, limpide e addirittura sensuali, si scontrano con banchi di nebbia che ne ampliano le potenzialità, ne disperdono l’effetto e ne amplificano la forza. “These Hands” prosegue l’idea eliminando però – almeno per qualche minuto – la pomposità (positiva) degli arrangiamenti che caratterizzano il disco, e che si ritrovano nel chorus, variato da una voce più alta e dalle fattezze oniriche. Tenere insieme un effetto cosmico ad una struttura ben chiara, che è quella del brano rock tipico, non è per niente facile; i Descendants non hanno timore di rischiare e seguono una direzione che sfuma i confini tra pop, rock e persino wave – si ascolti a tal proposito la riuscitissima “Lost in the Woods”, esperimento davvero raro di questi tempi nel mondo del rock, che termina là dove converge la successiva “Unbreakable”, ipnotica e oscura; mentre “Scary Crows”, dal fatto suo, ci ributta in un vortice gotico di presenze demoniache e voci da Japan di “Gentlemen Take Polaroids”, con un pizzico di In the Nursery e di Crime & the City Solution: un recupero anni ’80 sincero e brillante, che non scade mai nel revival e diventa punto di partenza per spunti innovativi. E con “Shallow” si sente persino Bruce Springsteen: il rock è sempre punto di riferimento, sostanza decisiva e collante di ogni evoluzione del gruppo.
La seconda parte dell’album alterna ancora momenti più sperimentali, come la inquietante “A Thousand Years”, dove Genesis P-Orridge rivive attraverso un arrangiamento cavernoso e una voce spaventevole, a passaggi quasi ballabili, come la spettrale ma divertente “Let Go” e la malinconica “The Echo and the Voice”. A chiusura del disco, alla bellissima “Defiance”, dolce nell’arpeggio di chitarra e nell’ondata di tastiere e synth ed emozionante nell’interpretazione vocale, segue un outro ancora più dolce e pacificante, “Lost to the Noise”, che fa da titoli di coda al disco. “Conversations with Mirrors” ha tanto di londinese e tanto di britannico, e risulta una piccola perla nel panorama underground mondiale, perché cerca, attraverso “vecchi” linguaggi, risultati nuovi, e prova a intavolare un discorso tutto suo, originale e fuori dal coro, che merita assolutamente di essere ascoltato e compreso. (Samuele Conficoni)