FRANCESCO GUCCINI "Radici"
(1972 )
Se un giorno il mondo si libererà del Pensiero Unico, del modello di società basato sul denaro, sull’immagine e sulla competizione, la sfida più difficile non sarà tanto quella di ricostruire un po’ di giustizia sociale e di equa ripartizione delle ricchezze, ma piuttosto quella di ricreare dal nulla un certo senso di appartenenza al mondo che ci circonda, ovvero di far rivivere le nostre radici.
Sì, l’ho presa molto alla larga, filosofando un po’, ma per introdurre un’opera così profonda e significativa mi sembrava opportuno. “Radici” è un tesoro di testimonianze, vicende e riflessioni che solo uno come Francesco Guccini poteva mettere in forma di canzone. Se De André tra i cantautori è il poeta per eccellenza, Guccini è il narratore, tanto che alla fine la sua inesauribile vena ha trovato sfogo in veri e propri romanzi.
Il filo conduttore di questo capolavoro del 1972, è proprio il potersi identificare in un popolo, in una comunità, perfino nelle pietre di una casa. Lo ribadisce la copertina, dove appaiono tre o quattro generazioni di Guccini, a partire dall’omonimo bisnonno Francesco. Le sette canzoni dell’album diventeranno altrettanti classici, con l’esclusione proprio di “Radici”, forse la più profonda in assoluto, in cui ogni angolo della casa dove hanno vissuto gli antenati ha una vita propria. Un luogo come altri, una casa-mulino presso Pàvana, sull’Appennino Tosco-Emiliano, ma al tempo stesso un mondo, un teatro di vicende che poi troveranno spazio in un intero libro (“Croniche Epafaniche”).
'Radici' sono anche i “miti passati” a cui si abbandona un vecchio nel descrivere ad un bambino com’era ai suoi tempi la pianura che i due osservano: coperta di grano, con frutti, colori, alberi verdi, con “il ritmo dell’uomo e delle stagioni” non ancora cancellato dallo “sviluppo”. “Il vecchio e il bambino” in realtà nasce come canzone contro l’olocausto nucleare, ma al centro rimane la straziante nostalgia per un mondo perduto, che il vecchio ricorda piangendo (e noi con lui).
“Il ritmo dell’uomo e delle stagioni” è anche quello della “Canzone dei dodici mesi”, ricca di riferimenti a poeti che in vario modo hanno celebrato le stagioni, e ricca soprattutto di immagini che solo chi cerca di vivere ancora legato ai cicli della natura può riuscire a creare. E Guccini è senz’altro uno di questi.
Le radici esistono anche in città, nella città dove si è cresciuti, specie se è una “Piccola città” come Modena, “bastardo posto” e “nemica strana”, ma anche magico scenario dell’adolescenza. “Piccola città” in pratica riassume un altro romanzo di Guccini: “Vacca d’un cane”. Modena, città “già nostra e ora incredibile e fredda”, fa da sfondo anche a “Incontro”, una delle canzoni più intimiste di Guccini, dove il malinconico incontro con un’amica, che narra le vicende, anche tragiche, di dieci anni di vita vissuta, si svolge in un’atmosfera che un verso come “stoviglie color nostalgia” basta da solo a rappresentare.
E le storie che si tramandano di padre in figlio, non sono preziose radici anche quelle? Come quella, realmente accaduta, di un macchinista anarchico lanciatosi come un pazzo contro un treno “di signori” ai primi del ‘900. Da cui è nata “La locomotiva”, da sempre troppo caricata di significati politici, come se la vicenda si esaurisse in quel triplice “trionfi la giustizia proletaria…”. E il lato epico, la celebrazione di questo gesto coraggioso e suicida, dove li mettiamo?
Al centro della toccante “Canzone della bambina portoghese” c’è lo smarrimento, il sentirsi “un punto” o “un niente”, la perdita, sia pure momentanea, dei propri riferimenti, complice l’immensità dell’Atlantico. Per un disco di cui non andrebbe persa neanche una parola l’aspetto musicale sembra secondario, ma Pier Farri, arrangiatore creativo quanto pasticcione, va citato per aver tentato in ogni modo di sciupare il capolavoro di Guccini. Un solo esempio: il rumore sinistro tipo trapano da dentista che introduce “Il vecchio e il bambino”, che poi per fortuna prosegue con una più umana chitarra. D’altronde il moog era la novità del momento e sperimentare era considerato quasi un obbligo. Qui però c’è così tanta sostanza che non se ne sente davvero il bisogno. (Luca "Grasshopper" Lapini)