recensioni dischi
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CAT STEVENS  "Tea for the tillerman"
   (1970 )

Della sua terza vita, quella attuale, si sa ben poco: si fa chiamare Yusuf Islam e a suo tempo aderì alla condanna a morte di Salman Rushdie da parte degli ayatollah, il che fa pensare che Allah gli abbia ormai invaso il cervello. Ciò non dà mai buoni effetti, e non vale solo per Allah.

Della sua prima vita si sa ancora meno: poco più che il nome, che allora era Steven Georgiou. Ma proprio il nome svela le sue origini greche, almeno dalla parte del padre, e questo avrà una certa ripercussione sulla sua arte. Che è concentrata quasi interamente nella sua seconda vita, la più breve e la più interessante, quella a nome Cat Stevens.

L’esordio è mediocre: canzoncine abbastanza scontate, spesso sommerse da inopportuni e stucchevoli strati di archi. Ma dal 1969–70 in poi avviene una svolta così netta da rendere questo figlio di un immigrato greco uno dei pochi europei, se non l’unico, a potersi almeno confrontare con i maestri della ballata acustica di oltreoceano, che rispondono a illustri nomi come Bob Dylan, Neil Young, Leonard Cohen, Joni Mitchell…

Certamente i suoi testi non hanno un valore né letterario né di contenuto paragonabili a quelli di un Dylan o di un Cohen, ma si fanno rispettare per la loro semplicità e saggezza: spesso Cat Stevens ci parla come un filosofo che ormai ne ha passate tante e ha sempre qualche buon consiglio da darci, che si tratti di amore o di politica, di ecologia o di scelte di vita. Anche se nel 1970 ha solo 23 anni, in “Father and Son”, la celebre e splendida ballata-dialogo tra un padre (“guardami, sono vecchio ma felice”) e un figlio inquieto (“Io so di dovermene andare”, presumibilmente via di casa e in giro per il mondo), Cat Stevens è più credibile nella parte nel genitore.

Ma per quanto interessanti, i testi finiscono per passare in secondo piano rispetto alla vena melodica e all’intensità musicale di queste ballate, ed è qui che entra in gioco l’origine greca, con sapienti innesti di colore mediterraneo sul robusto tronco del folk britannico, esuberanza di suoni soprattutto grazie alle ricche trame delle due chitarre acustiche, dello stesso Stevens e dell’ottimo Alun Davies.

Nella non lunga serie di ottimi dischi di questo periodo, “Tea For The Tillerman” spicca per la sua concentrazione di capolavori, simile a quella di un Greatest Hits. Forse la più nota in assoluto di queste ballate è “Wild World” (“Oh baby baby it’s a wild world…”) dove all’amarezza di un addio si intreccia un vago tono di denuncia, e la sua fama non è certo usurpata, ma il disco presenta molti altri momenti di grande ispirazione, splendide canzoni che non sono da meno, come “Hard Headed Woman”, dove in mezzo a una rete di preziosi arpeggi chitarristici si profila un quadro di donna ideale che poi alla fine si rivela molto comune, o come “Sad Lisa”, che con un mesto, insolito accompagnamento cameristico di pianoforte e violino, tratteggia una figura di donna in lacrime, stampandola nell’anima con inchiostro indelebile.

Deliziosi anche il quadretto teneramente ecologista di “Where Do The Children Play?” e quello più surreale di “Into White”, una specie di casa di Hansel e Gretel, piena di colori che però sfumano nel bianco, come l’incantevole melodia delle chitarre sembra sfumare nel tema esposto dal violino, così angelico da sembrare davvero di colore bianco.

Con Cat Stevens il batterista ogni tanto può anche farsi un sonnellino: lo troviamo in piena azione nella imponente e un po’ progressive “Miles From Nowhere”, o in “Longer Boats” a rappresentare l’avvicinarsi minaccioso delle navi alla spiaggia, per il resto si limita a sottolineare discretamente qualche tratto saliente di queste ballate. Anche questo dà un‘idea del concentrato di melodia presente in questo disco, un vero capolavoro acustico. (Luca "Grasshopper" Lapini)