BOB DYLAN "Highway 61 revisited"
(1965 )
Capita spesso di celebrare i 30-40 anni di dischi che hanno fatto la storia della musica, ma un cinquantennale è ancora piuttosto raro. Ebbene, “Highway 61 revisited” è del 1965, anche se non sembra.
Nell’immaginario collettivo italiano, grazie anche ad un potente lavaggio del cervello televisivo, al 1965 è associata gente come Jimmy Fontana, Edoardo Vianello o al massimo Gino Paoli. Si dimentica che sotto sotto qualcosa anche da noi covava: almeno De Andrè e Guccini avevano già scritto qualcosa di importante, ma ancora lo sapevano in pochi. Ben altra rivoluzione era accaduta negli USA, e gran parte del merito va ad un folksinger arrabbiato, dalla voce nasale e sgradevole, eppure miracolosamente musicale: Bob Dylan.
Per qualche anno fu soprattutto un narratore, e di tale livello che ormai viene comunemente citato nelle antologie di letteratura americana (io per esempio ho un libro di suoi testi che fa parte di una collana di romanzi). Poi, proprio nel 1965, arrivarono in successione prima “Bringing It All Back Home”, in bilico tra il vecchio stile e i primi tentativi di vero rock, e a ruota questo fantastico “Highway 61 Revisited”, in cui il vecchio Dylan NARRATORE lasciò il posto al Dylan MUSICISTA, cosa che due anni prima sembrava impensabile. Il tutto senza sacrificare i testi, ci mancherebbe.
Anche se il vero capolavoro sarà il successivo “Blonde On Blonde”, il disco della svolta è questo: è qui che compare a tempo pieno una band finalmente completa (da citare l’organo di Al Kooper e la chitarra acustica di Robbie Robertson) ed è qui che si impone definitivamente un deciso, netto suono rock: l’unico residuo dell’armamentario da folksinger è la vecchia fedele armonica, che seguirà Dylan anche nelle successive fasi, fino agli anni ’80.
Che è un’altra musica lo si capisce fin dalle prime note di “Like A Rolling Stone”, una delle vette del disco, grazie alla ricchezza di colori della strumentazione e al motivo assai moderno per l’epoca, che si sposa alla perfezione con il glaciale cinismo con cui la voce di Dylan descrive la parabola discendente di una ragazza un tempo famosa e ora “completa sconosciuta”.
“Tombstone Blues” appartiene al blues-rock più standard, ma la sua tensione frenetica la rende gradevole. Così come per “From A Buick 6” e “Highway 61 Revisited”: il rock è quello lì, quasi ingenuo nella sua purezza. Nella seconda c’è chi vede un’anteprima dei “rock autostradali” di Bruce Springsteen, ma per Dylan la Highway 61 è luogo dell’anima, più che realistico scenario di vicende umane come saranno le strade del “Boss”.
Nei blues più lenti si apprezza un’accurata strumentazione: ne sono testimonianza “It Takes A Lot To Laugh” e “Just Like Tom Thumb’s Blues”. “Queen Jane Approximately” è una perfetta trasposizione in chiave rock delle vecchie ballate stile folk. Ma oltre a “Like A Rolling Stone” gli altri due punti di forza sono “Ballad Of A Thin Man” e “Desolation Row”.
La prima non è considerata un classico, ma se si esclude “Masters Of War”, non ho mai sentito una ballata di denuncia in cui Dylan abbandona l’abituale tono sarcastico e sprezzante per assumere una partecipazione così commovente, questo grazie anche al tema infinitamente triste, stupendo.
“Desolation Row” è una torrenziale ballata di 11 minuti e passa, ma resa godibile da splendidi arpeggi di chitarra acustica. Sullo sfondo di questa immaginaria strada scorrono immagini di personaggi storici e non, visti comunque tutti attraverso una lente così dissacrante e velenosa da sembrare tutti quanti burattini che si agitano inutilmente e comicamente, anche se rispondono agli illustri nomi di Einstein, Pound, Eliot ecc.. Fabrizio De André (e chi se no ?) ne capì in pieno la satira corrosiva e la tradusse da par suo (“Via della Povertà”, 1974).
Finisco azzardando una previsione: tra altri 50 anni questo disco non sarà ancora dimenticato. (Luca "Grasshopper" Lapini)