recensioni dischi
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LA MACABRA MOKA  "Tubo catodico"
   (2017 )

Come Roberto De Simone, anche il mio amico Luca sostiene che in Italia col passar degli anni la musica peggiora, non si va più avanti. Dissento, ribattendo e ribadendo come tra ciò che ascolto ogni giorno si riescano a scovare – nemmeno di rado – autentiche perle nascoste, spesso proprio di nostrana fattura. Tra queste – astenersi allineati – La Macabra Moka, quartetto cuneese attivo dal 2010, qui al secondo lavoro sulla lunga distanza, a tre anni da “Ammazzacaffè”: lavoro feroce, brutale e disinteressato, “Tubo catodico” impasta classici dell’indie-tutto autoctono, dagli illustri concittadini - che nemmeno cito - agli One Dimensional Man, dai Fratelli Calafuria ai Julian Mente, passando con furbizia e barbarie da grottesche visioni agnelliane ad una efferatezza d’intenti che ne esalta gli ardori e ne inasprisce l’andazzo generale. Ecco, la sensazione a pelle è questa: qualcosa di marcio, di sbagliato, di corrotto, qualcosa che non va. Benissimo, per quanto mi riguarda, ma ripeto: astenersi allineati. Sfumato il confine tra provocazione, sfottò, assalti frontali e furiosa iconoclastia, “Tubo catodico” si abbatte sghembo e tagliente menando fendenti come di sdegno, lasciando in bocca un tono metallico affatto standard mentre, iracondo, predica contro il malfatto mondo nuovo. Con la virulenza concessagli in dote dal sacro fuoco dell’antagonismo, l’album si infila in anfratti oscuri rischiarati appena da sparute rimembranze di canzoni più accomodanti, miraggi che rimandano di poco la tabula rasa elettrificata cui il quartetto ambisce. Introdotta da un riff affilato che dà l’abbrivio ad una cadenza belluina, “Radio Fa” apre il disco su una corrosiva mistura 90’s, preda di un testo che sarebbe divertente se non fosse sventrato da rigurgiti vocali à la Dorom Dazed e da sincero disgusto, preludio alla progressione quasi emo (la figura introduttiva della chitarra, i cori, la melodia sul pre-chorus) di “Col cerino in mano”, latrata tuttavia con sbracata, frontale violenza hardcore. Tra le rifiniture tardo-grunge di “Johnny Shines è tornato nel gruppo”, ove ancora troneggiano i vocalizzi gutturali e strozzati di Pietro Parola, l’hard-blues de “Le aquile del metallo morto” ed il passo stralunato à la Verdena di “La parte degli angeli”, fanno capolino lo schiaffetto à la Management Del Dolore Post-Operatorio di “Tormentone d’estate” e perfino lo strumentale post-rock di “Piove, governo ladro”. E’ una discesa nel maelstrom frenetica e dolorosa, una rovinosa caduta chiusa sul delirio malsano di “Ok, il prezzo è giusto!”, helzapoppin strafatto che richiama i La Dispute - screamo enfatico e base straziata – addizionati della schifata ironia testuale del primo Jacopo Incani: ok, il pezzo è giusto, ma nulla a confronto dei due minuti e diciassette secondi di cara catastrofe di “7 volte capra”, tritacarne che stipa la nevrosi dei primi That Petrol Emotion, una frase acida della chitarra che pare “Bed for the scraping” dei Fugazi e grida parossistiche fra Yow (il maestro) e Capovilla (il discepolo) in un angolino d’inferno meravigliosamente soffocante. Strada impervia quella scelta da La Macabra Moka, lastricata di pessime intenzioni, cattivi pensieri e chirurgia sperimentale: ho visto il futuro, è nero, bene così. (Manuel Maverna)