LES FLEURS DES MALADIVES "Il rock è morto"
(2017 )
Nessuno è perfetto, nemmeno una donna bellissima, sappiatelo.
E – tranne uno che ho impiegato una vita a trovare, ma non vi dico qual è - nessun disco è perfetto, nemmeno “Il rock è morto”, prodotto da Max Zanotti, pubblicato da Ostile Records, distribuito da Believe, nonché secondo album del trio comasco Les Fleurs Des Maladives, dieci anni di attività non privi di soddisfazioni e riscontri.
Tuttavia: per innamorarmi pressoché perdutamente di questo disco imperfetto ho impiegato esattamente sette secondi, i primi sette secondi di “Rock’n’roll”, quelli che separano la quiete dalla tempesta, il minimo occorrente perché i baldi giovani dispongano in libertà dell’attonito uditorio alla loro mercé.
“Il rock è morto” è una sassata in faccia, un po’ cazzone – ma anche no – e un po’ ignorante – ma anche no: in sostanza, life is funny, but not ha ha-funny, isn’t it? Sette secondi fra il silenzio e l’assalto a testa bassa, furia controllata mentre la nave va, e va a picco: in sottofondo, la titanic orkestar somministra musica sfasciata da chitarre spaccaossa, sventrata da un basso slabbrato, trafitta da un canto beffardo che flirta di continuo con gli Afterhours periodo 1995-1997, senza rinunciare a lasciarsi memorizzare e – incredibilmente - canticchiare in scioltezza sotto la doccia.
Enormemente superiore per scrittura e qualità al debutto urticante ma acerbo di “MEDIOEVO!” (2013), “Il rock è morto” veleggia incattivito sul filo dello sberleffo (esemplare il gioco di specchi de “La grande truffa dell’indie-rock”) celando mine letali sotto mentite spoglie, infilando con truce indifferenza il mini-trattato di astrofisica di “Homo sapiens” – piccolo capolavoro su distruzione ed estinzione del genere umano, oh yes – o la bordata di “Attacchi di panico”, con un riff degno di Angus Young sparato a manetta fra belle variazioni nascoste ed un allegro ritornello – ebbene sì - anthemico e prepotente.
Padroni della scena fino alla spavalderia, i tre imbastiscono pure “Chernobyl”, quasi il contraltare alla “Novembre” ripresa da Nada nel 2009, una signora ballata truccata da torch-song da spiaggia con tanto di armonica, chorus radiofonico ed un testo ancora impregnato di fisica quantistica; sfregiano poi il bel mondo fighetto&milanese nella sguaiata elettricità à la Ritmo Tribale di “NABA design blues”, citano De Andrè restituendo la perduta dignità alla vittima di morte certa ne “La canzone del condannato”, sparano infine sul carrozzone del music-system nella mitragliata up-tempo della title-track.
Indomiti, trovano la pazienza per ricamare, non senza una perversa eleganza, le due tracce conclusive, a ragion veduta gli episodi più allineati e compositi dell’intero lavoro: una cover arroventata della complessa “Le tre verità” di Mogol-Battisti – anno del Signore 1971 – con preziosa interpretazione vocale di Alteria, ed i sei minuti granitici ed implosivi de “La fine dello spettacolo”, frenetico crescendo elettrico nervoso e angolare, saturazione stordente che mai realmente deflagra, chiudendo l’album in una bolla sospesa a mezzaria, come se il boia rinunciasse al colpo di grazia.
Sfrontati e autoreferenziali, strafottenti e noncuranti, ma inaspettatamente capaci di slanci colti che ne mostrano l’autentica filigrana, i tre ammanniscono una rumorosa sarabanda glam che sfuma il confine tra kitsch, indie, intenti auto parodistici, raggiro tout-court, motteggio grottesco ed intelligente profondità, un pastiche elettrico ad alzo zero rigonfio di beffardo scherno, tra burla inacidita e serioso divertissement. Quasi perfetto. (Manuel Maverna)