recensioni dischi
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PIER BERNARDI  "Re-birth"
   (2017 )

E pensare che fino a non molti anni fa rifiutavo categoricamente di ascoltare dischi che fossero solo strumentali. Mi perdevo molto, Mogwai compresi, ma per fortuna si invecchia, magari si matura, forse si capisce qualcosa in più. Pier Bernardi, bassista reggiano con laurea al CPM, attivo da diversi anni al fianco di personalità eccellenti del panorama nostrano ed internazionale tra i quali mi piace almeno ricordare l’immenso Paul Gilbert, debutta su Irma/Music Market con le dieci tracce di “Re-birth”, album – per l’appunto - interamente strumentale nel quale sfoggia con la brillantezza del veterano squarci di una scrittura intensa e coinvolgente. Con la produzione artistica di Giovanni Amighetti, “Re-birth” si concede il lusso di annoverare fra i musicisti prestati alla causa, oltre allo stesso Amighetti, addirittura Martin “Ace” Kent, chitarrista degli Skunk Anansie, e Michael Urbano (John Hiatt, Sheryl Crow, Smash Mouth tra gli altri) alla batteria, concedendosi perfino le ospitate di David Rhodes (a lungo sodale di Peter Gabriel) e del compositore norvegese Roger Ludvigsen. Nonostante l’illustre band a disposizione, in “Re-birth” non è mai il virtuosismo fine a sé stesso a dominare la scena, bensì il tentativo di costruire paesaggi sonori affidandosi a pochi tratteggi eleganti: lungi dallo strafare, l’ensemble ricama tessiture che non ricercano complessità forzata nè cervellotiche divagazioni o impervia sperimentazione, prediligendo un linguaggio tanto essenziale quanto solido ed evocativo. Basterebbe la tremula melodia di “Dresses upon us”, fra Blonde Redhead e Morricone, suggestioni neoclassiche e Georges Delerue, per materializzare con vividezza scenari in cui figure immaginarie si muovono su uno sfondo traslucido, ma “Re-birth” è molto di più, lavoro che ambisce, mutando passo ed atmosfera così come colori ed umori, a narrare l’inespresso. E’ un building something out of nothing che rinuncia alla parola per sciorinare indifferentemente l’opener cinematografica di “A bus, your hand” – spy-story da Morphine? - o il white funk di “Stars and stones”, la morbida apertura methenyana di “Grace” o la cadenza latina di “Blonde noise”, capitoli di una storia che si compie e si svela in un gioco di sottintesi e suggerimenti: mi ricorda, più per la medesima abilità nell’edificare trame sonore mute che per la contorta virulenza dell’insieme, il debutto dei Battles di John Stanier, specie nel metalcore truccato da pop-song di “I’m ready now” (quasi i RHCP) e nell’impennata frenetica che scuote il finale di “World syncope”. E’ un percorso sinuoso tra panorami mutevoli quello di “Re-birth”, un racconto sonorizzato infarcito di piccoli preziosismi che gettano nuova luce sulla prossima curva: l’ultima istantanea è quella del celestiale trittico che chiude l’album, librandosi sul notturno pallido di “Little square of miracles”, passando per la straziata aria à la Ronin della già citata “Dresse upon us”, calando infine il sipario sullo sfuggente commiato di “My eyes are yours”, suggello ad un lavoro ammirevole per intelligenza, inventiva, profondità. (Manuel Maverna)