recensioni dischi
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VAN MORRISON  "Astral weeks"
   (1968 )

Inafferrabile come l’inconscio, indefinibile come un flusso di pensieri a ruota libera. Come diceva Lucio Dalla, “il pensiero, come l’Oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare…”, e quindi neanche catalogare.

Van Morrison è un vulcano di sensazioni allo stato puro, va dritto all’anima, sfugge ad ogni classificazione. E’ irlandese, ma fino agli anni ’80 non farà mai uso redditizio del misterioso e fascinoso “colore celtico”. Però quando deciderà di usarlo lo farà da maestro.

La sua musica sembra piuttosto costruita su solidi pilastri blues, ma con un’interpretazione così personale di questo genere da stravolgerne completamente la metrica e i canoni, per arrivare ad un’anarchia quasi totale, ad una contaminazione con elementi jazz, folk e perfino classici.

Qualcuno per i suoi testi visionari ha scomodato antichi poeti irlandesi e non, qualcun altro lo ha visto come erede del leggendario bardo celtico. A me questa parola mi fa venire in mente il povero Assurancetourix, bardo ufficiale del villaggio gallico di Asterix, che ogni volta che si prova a strimpellare qualcosa viene regolarmente imbavagliato. Nulla di più lontano da Van Morrison, che si fa accompagnare in modo ineccepibile da strumentisti quadripalluti, in genere provenienti dal jazz, e che usa la sua tagliente voce di baritono in modo assai duttile, alternando il sussurro confidenziale ai toni dolenti del blues, con frequenti e fulminee impennate che lasciano sbalordito chi ascolta.

Dopo un breve periodo di gavetta, in cui viaggia tra la natia Belfast e gli USA, al secondo colpo sforna “Astral Weeks”, capostipite di una lunga serie di capolavori, inciso nel 1968 in due soli giorni, eppure un miracolo di perfezione strumentale. Il brano omonimo, all’inizio, offre già un perfetto esempio della struttura dei blues irregolari di “Van the Man”: procede a singhiozzi, senza strofe né ritornelli, per continue aggiunte di sensazioni, che il testo suggerisce e la musica disegna, con le entrate progressive di chitarra acustica, flauto e violino a duettare con la scarna base ritmica. Quando sfuma siamo già in trance e neanche ci si accorge che sono volati via 7 minuti.

Stessa sensazione danno le due lunghe ballate che dominano la seconda parte: “Madame George” e “Ballerina”. I loro temi sembrano monotoni, ma ipnotizzano e incantano: nella prima contribuisce lo struggente dialogo un po’ coheniano tra chitarra acustica e violino, con il flauto che sembra insinuarsi negli spazi liberi; nella seconda, vaga immagine di donna degna delle icone femminili dylaniane, il fascino è dovuto alla punteggiatura quasi costante di un vibrafono tipicamente jazz.

Altro gioiello è la lunga “Cyprus Avenue”: qui il compito di rapirci è svolto da un insolito clavicembalo, che parte con semplici terzine, via via sempre più fitte, fino ad un accompagnamento di ricchezza barocca, come si conviene a questo strumento, tipico della musica sei-settecentesca. Ma il viaggio più profondo nell’inconscio è “Beside You”, un vero e proprio vortice creato dalle limpide note della chitarra acustica, dai magici giochi di un flauto da incantatore di serpenti e dai disperati vocalizzi di Van Morrison, che ci risucchia sempre più giù, nelle profondità del dolore umano. Si piange e si gode.

Spezzano appena un po’ la tensione due episodi più ingenui, più “anni ’60”, ma sempre ricchi di preziosismi: “Sweet Thing” e “The Way Young Lovers Do”; in particolare quest’ultima sfoggia brillanti fiati tipicamente soul. Un altro breve gioiellino chiude il disco: “Slim Slow Slider”. La voce sembra persa in un vuoto irreale, che a poco a poco si riempie grazie agli arabeschi di uno splendido flauto, ancora una volta grande protagonista. La chiusura un po’ brusca di quest’ultima magia ci lascia a bocca aperta, con una voglia feroce di riascoltare questo disco sublime. (Luca "Grasshopper" Lapini)