recensioni dischi
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SANTACROCE  "Migras"
   (2017 )

Per fortuna che c'è Alessio Santacroce, un autore, che come direbbero in Veneto, te sveja fora (ti sveglia fuori). I testi dell'album "Migras" affrontano senza girarci troppo intorno tutti i problemi dei nostri giorni, con un rock italiano che ogni tanto strizza un po' l'occhio ai Foo Fighters. L'LP mette in chiaro fin dall'inizio l'intenzione impegnata dell'artista, con il brano d'apertura "Il gregge": "Noi siamo la generazione che non accetterà la morte, perché abbiamo scordato la fame e il peso delle bombe". L'analisi si fa più acuta in seguito: "Noi siamo quel che mangiamo, carcasse di seconda mano". Ed è vero, la qualità dell'alimentazione industrializzata è al suo minimo storico di qualità, si mangiano più le pubblicità che i prodotti stessi. "Cannibali per negligenza, vampiri sordi e in astinenza" sono definizioni ermetiche che contengono già tutto il succo del discorso, e credo che con un'attenzione onesta a ogni singola parola, non serva farne la parafrasi per comprenderle. Il secondo brano "La notte della Repubblica" è un invettiva contro i potenti "vili e codardi" ed i loro giochi, riassunta nella frase del bridge: "Avete condannato i nostri figli, tentare di scappare è troppo tardi". Da notare che questo brano porta il titolo di una trasmissione della Rai che approfondiva gli anni di piombo. In "Clorophille" emerge la voce di Vanessa, la seconda cantante nel progetto, dal carattere molto aggressivo, in perfetta linea con l'intento ammonitore di questa musica. "Mercante d'anime" parla del traffico di umani, "questo mare puzza di morte (...) tutto il nostro disprezzo per chi gioca con la speranza". Ogni riferimento ai naufragati nel Mar Mediterraneo è puramente voluto. Nella meno esplicita "Normandy" le chitarre creano dei riff nordici (con le quinte parallele) e si passa ad un versante più intimistico dell'album, che si esplicita ulteriormente nel successivo brano "Bianco miope". Qui il testo sa di confessione personale, inserita tra gli attacchi verso la massa addormentata: "un pianista che suona senza cuore, che fa la guerra con un altro spartito che è diventato il suo più grande nemico (...), se non ferissi le persone che amo (...) se il mio giudizio fosse meno severo". Un introduzione di delay di chitarre ci porta in questo brano che conclude con la frase "Senza il sole appassirò", ripetuta fino ad essere lasciata sola nel coro, senza strumenti. Il precedente brano "Normandy" terminava invece con un allarme di quelli per bombardamento, allarme che ricompare ne "L'ingiusta fine delle mezze stagioni", come un segnale per tornare attivi nella battaglia delle parole: "Non sopporto l'arroganza, il giudizio della piazza (...), non esiste l'uguaglianza se spacciata per pietà". Le chitarre elettriche si spengono ne "La fiaba Dulcamara", dove un arpeggio acustico accompagna delle strofe scritte con la stessa anafora di ''Blowing in the wind'' di Dylan: "quanto sangue dovremo versare perché Pasqua sia passata davvero, quanti morti per un dio superiore e nessuno sa qual è quello vero", poi denuncia il malcostume più assurdo del nostro tempo, "mentre quattro coglioni stupendi stanno chiusi in casa a farsi guardare, come se l'uomo fosse solo un guardone che non ha niente di meglio da fare". Questa critica ai social network è insolita e ci voleva qualcuno che la dicesse: non si condanna da un punto di vista moralistico il mettersi in mostra online, ma si evidenzia il lato pratico, il fatto che ci sarebbe anche qualcosa di meglio da fare; questo gioco di basare la nostra autostima sui like ci sta facendo perdere concretamente un sacco di tempo, che fossimo nati vent'anni prima forse avremmo speso di più a manifestare e protestare contro le ingiustizie (sì, beh, non tutti, ovvio, ma tanto quest'album è rivolto ai più attenti, quindi...). Una strofa che un bolognese definirebbe pesissima è: "Ci son vecchi bavosi e sporchi che non hanno mai saputo amare, e allora inventano vacanze di sesso con bambini che non possono urlare". C'è poco altro da aggiungere, e se non avete capito ancora la serietà di Santacroce, nell'ultimo brano che è la titletrack egli ci ricorda che "l'aria vive, e mi concede di esistere", con una musica che si fa più dolce, un tipico lento rock italiano con doppie voci e arpeggi di chitarra elettrica pulita, che a metà brano si accende, sostenuto da un tappeto orchestrale di tastiere, arrivando ad un climax drammatico che chiude un album che forse, ci lascia più consapevoli di prima. (Gilberto Ongaro)