recensioni dischi
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CUT  "Second skin"
   (2017 )

Il sesto album della band bolognese Cut è un trionfo di energia e influenze variegate, rese particolarmente efficaci dalla presenza di collaboratori di lunga data e amici dei membri del gruppo. Le suggestioni sognanti che emana lo rendono uno dei capitoli più godibili della loro intera discografia. “Second Skin” è un titolo ambivalente, che percorre due strade entrambi compresenti nel disco: la seconda pelle di un gruppo che sa reinventarsi e rigenerarsi di anno in anno, una seconda pelle che ciascun elemento sa vestire con sincerità e nonchalance, ma anche la difficoltà ad affrancarsi da ossessioni, dipendenze, legami passati mai cancellati del tutto. Questa “seconda pelle” è anche un percorso catartico che inizia con il grido punk liberatorio di “Shot Dead”, dove le chitarre e la performance vocale la fanno da padrona. La tensione soffocata cela tanta carica ma anche tanta voglia di sfogarsi, di buttar fuori la negatività, di dar vita a un nuovo ciclo artistico. Le bellissime “You Killed Me First” e “Parasite”, aggressive quanto basta nell’approccio vocale e nel basso e batteria avvolgenti, sono intervallate da “Too Late”, altrettanto forte, ma più riflessiva e orecchiabile. Il livello si mantiene alto grazie alle tante variazioni interne, costituite da seconde voci, cambiamenti ritmici, arrangiamenti diversificati ed esplosioni improvvise, e l’influenza degli Stooges è lampante.

Con la coraggiosa e intraprendente “Automatic Heart (Tacoma Time Travel)” si aggiungono nuovi frammenti al puzzle: sperimentazione e gioco si fondono insieme, mostrando un nuovo lato della (rinnovata) vita artistica dei Cut. Il gruppo di amici se la spassa in studio e crea nuove sonorità basate su impressioni, riverberi, voci che si fondono e confondono, come avviene nel finale del brano: che colpo! Il livello non si abbassa: il rock classico, torrido e fumoso, è a volte integrato nella ballata, come avviene per la romantica e seducente “Take It Back to the Start”, dove la voce è strepitosa, con la chitarra che sembra uscir fuori dalle paludi del Mississippi; altre volte portato all’assurdo con la parentesi Butthole Surfers di “Second Skin” – un piccolo gioiello – e la seriosa “Holy War”, che risente di qualcosa degli R.E.M. Ma è con “The One Who Waits” che troviamo l’ennesima variazione stilistica del disco: i Japandroids si incrociano con i Parquet Courts in un brano rock pienamente indie, da “nuovo millennio”. E quanto è cantabile questo pezzo! I Cut hanno decisamente tante pelli, e come i serpenti sanno indossarle senza farsi notare, mimetizzandosi meravigliosamente.

Il finale è radioso: “Paralysed” è inquietante, sinistra, con le sue dissonanze cervellotiche e una voce da oltretomba; “Catch My Fall” è un’altra parentesi pop riuscitissima, dove l’approccio vocale misurato si confronta con una chitarra docile e una batteria minimale; la conclusiva “Crash and Burn” dà la parte del protagonista al basso, e la chitarra “wah-wah” si incastra perfettamente con le linee melodiche e le parole. I cori inaspettati aggiungono l’ennesimo tassello imprevedibile a un disco che sembra non esaurire mai le sue potenzialità. Così come la band che lo ha creato. Un altro grande centro dei Cut. (Samuele Conficoni)