CAPTAIN MANTELL "Dirty white king"
(2017 )
Il sax! Il sax! Sembra una mosca ma è un sax! Dove mi trovo? Ho paura, c'è qualcuno che mi insegue... Che anno è? (Che giorno è?) Ho freddo e sono solo. Che cos'è quello? Un disco volante? No, non avete sbagliato sito. Siete sempre su Music Map. In compagnia però dei Captain Mantell, un trio chitarra/batteria/sax che disorienta parecchio e fa perdere i riferimenti, quasi come i King Crimson. Oltre a questo nome si potrebbero rievocare i Faith No More per l'umore e i Soundgarden per la voce quando graffia sulle note alte, voce che ricorda Chris Cornell, soprattutto in "Days of doom"; ma non tanti altri nomi, e il gioco di scovare le influenze diventa quasi stantio in questo caso, per i risultati dello sviluppo di questa ricerca sonora. Ah, il titolo dell'album di cui si parla è "Dirty White King", il sesto della band, ma è difficile scrivere in maniera ordinata ascoltando certi colpi improvvisi nelle cuffie. Come i colpi di "Worst case scenario/Alone", che dal primo all'ultimo sono violentissimi, sostenuti da un tappeto sonoro che continua imperterrito fino alla fine, dopo aver ascoltato una poesia di un autore notoriamente rassicurante come Edgar Allan Poe. La poesia è intrisa di enjambement, significa che i periodi logici delle frasi sono spezzati a fine verso, per essere continuati nel successivo. E' evidente che gli elementi confondenti sono ben graditi dai Captain Mantell. Del resto Capitano Mantell è il nome del pilota che visse il primo storico avvistamento di un UFO, nel 1948. La cosa più particolare che balza all'orecchio è l'utilizzo insolito del sassofono. Da ignorante in materia, penso sia stato collegato ad un amplificatore per chitarra e si siano utilizzati i distorsori solitamente dedicati a tale strumento. L'effetto in certi punti sembra quello di una straniante mosca, un timbro poco sentito pure nei Naked City. Si fa riconoscere come sassofono nell'assolo di "Stuck in the middle ages", nell'ossessivo riff melodico di "Livor Mortis", ma viene suonato spesso inseguendo i riff di chitarra come in "Even dead", creando degli incisi molto taglienti. Ci sono anche tempi dispari, come nella titletrack di apertura "Dirty white king" dove si passa da un 5/4 ad un 11/4 e dove una voce compressa e riverberata, che sembra inizialmente richiamare quella degli Arctic Monkeys, dimostra ben presto tutt'altra direzione: nel complesso l'insieme suona molto grunge e molto anni '90, seppure con una veste nuova e fresca, anzi fredda come "Blood freezing". Si sfiora lo stoner nel refrain di "In the dog graveyard", mentre l'andamento strofico è più tenue ma ugualmente allucinante. "Inner Forest" introduce un coro quasi beatlesiano su uno sfondo psicotico. Il brano meglio riuscito in assoluto però resta "Let it down", che propone un riff melodico suonato all'unisono da chitarra e sassofono davvero particolare (per i musicisti: suonate in loop la sequenza fa# sol la do sib mi) risolto poi da un ritornello che lascia intravedere uno spiraglio di luce che si apre come lo spazio del testo "bring me to the ocean"; poi torna il riff con la sua potenza catartica. C'è uno special che viene suonato come un allarme, e poi l'assolo di sax conferma la sensazione allarmata. Una voce lontana e distorta ci accompagna nel pezzo di chiusura "And nothing more to come... maybe", e già il titolo dimostra la consapevolezza di aver scioccato le orecchie degli ascoltatori; sax e chitarra emettono urla isteriche, una pausa soft con un mellotron alla "Strawberry fields forever" viene contraddetta per tornare dentro un'atmosfera grunge con la quale veniamo abbandonati alle nostre suggestioni. E non c'è altro da aggiungere... forse. (Gilberto Ongaro)