DORIAN GRAY "Moonage mantra"
(2017 )
La prima volta che vidi dal vivo i Dorian Gray fu a Milano nei primi anni ’90, all’incirca al tempo della pubblicazione del loro album di debutto, “Shamano”. Il locale si chiamava Sorpasso, un lounge bar radical chic ante litteram dalle parti del Monumentale, una venue dove poter assistere ad un concerto comodamente seduti ai tavolini, sorseggiando qualcosa e godendosi lo spettacolo. Ero con il mio amico Michele e la sua ragazza di allora, e ricordo che l’istrionico cantante ad un certo punto salì in piedi su un tavolo fra la sorpresa degli attoniti astanti, che trasalirono ancor di più quando il front-man diede fuoco ad un bicchiere di whisky mobilitando anche un paio di increduli addetti alla sicurezza.
Bei tempi, ça va sans dire: oggi non so nemmeno se il Sorpasso di via General Govone esista più, ma so per certo che esistono ancora i Dorian Gray, assolutamente alive & kicking, ed è con sommo piacere e non senza una certa curiosità che mi sono volentieri accostato all’ascolto del loro nuovo lavoro, il settimo in venticinque anni di onesta, coerente, defilata carriera.
“Moonage mantra”, pubblicato su etichetta Cassavetes Connection/Believe, è opera che sciorina con la sapiente baldanza dei mestieranti di lungo corso i consueti crismi della band, dispensando testi mai triti ed una filosofia intrisa di disincantato fatalismo. Bipartito fra una prima metà in lingua italiana – Moonage side - ed una seconda in inglese – Mantra side - con lo strumentale kraut “Kali Yuga” a fungere da cesura, “Moonage mantra”, arricchito da collaborazioni rilevanti (Blaine Reininger dei Tuxedomoon su tutte) e da un artwork allettante (Davide Toffolo pinxit, tra gli altri) è album incompromissorio che si cimenta con successo nell’ardua impresa di risultare interessante senza svendersi, arrestandosi sempre un passo al di qua di una facile fruibilità.
Godibile ed imprevedibile, il lavoro prende le distanze da generi e sottogeneri distaccandosi da qualsivoglia manierismo, rileggendo altresì vent’anni e più di musica secondo una prospettiva obliqua fatta di impasti mutuati dalla new-wave tardo eighties come da rigurgiti electro, o ancora da schegge di cantautorato colto ben rintracciabili nelle curate ed intense liriche che lo connotano. Le canzoni rinunciano esplicitamente a svilupparsi in modo lineare, risolvendo la propria tensione in chorus accennati e talora inconclusi (emblematica l’opener “Dimenticare Burroughs”, con la tromba di Pepe Ragonese ai limiti del free) o mantenendo un andamento sospeso e sfuggente, come nell’aria trasognata di “Forma e apparenza” o nel piccolo capolavoro di introverso esistenzialismo che è “Quasar”, sommersa dall’intreccio ondivago di tastiere dilatate e chitarre distillate. Si affacciano qua e là suggestioni dei migliori Bluvertigo ed echi di Garbo (“Resta a vederlo morire”, esaltata dai contrappunti degli archi di Giovanna Famulari e Vanessa Cremaschi, rispettivamente violoncello e viola), prima che il clima muti radicalmente nelle quattro tracce conclusive, tra le quali spiccano una “Voodoo connection” che veleggia su armonie sghembe à la Japan ed una “Crowded brain” che potrebbe appartenere al repertorio dei Depeche Mode meno accomodanti, costruita com’è attorno ad almeno tre differenti linee mai culminanti in un ritornello vero e proprio.
Il rallentamento quasi beatlesiano di “Atacama baby”, con il crooning di Davide Catinari che lambisce vertici di toccante introspezione, e l’enfatica chiusa psichedelica di “Dreams never sleep” – straniante lullaby strumentale affogata in una saturazione space - rappresentano il suggello ideale ad un lavoro che offre l’istantanea di una band ancora in grado di sorprendere dopo un quarto di secolo di continua ricerca sonora, lessicale, narrativa, poetica, scenica. (Manuel Maverna)