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RAZZI TOTALI  "La città del niente"
   (2016 )

Lo ascoltavo un giorno che ero vestito in giacca e cravatta, questo album, e d’istinto mi sentivo un po’ in colpa, quantomeno fuori luogo, come a dire: inadatto alla situazione. Ma non c’è luogo né tempo per il punk, che non è morto – giusto? – né agonizzante. Invecchiato forse un po’ sì, in questa era di contaminazioni spinte o velate, un guazzabuglio di commistioni che rimpastano decenni di generi a compartimenti stagni risputandoli in fogge nuove, più o meno elaborate, più o meno azzeccate, non sempre e non necessariamente intriganti. Noncurante degli ibridi, c’è chi resta fedele alla linea e con incrollabile fiducia prosegue un discorso che è pura devozione ai padri fondatori, un anacronismo ostinato che si nutre dell’humus di cui è impregnato il rock tutto, quella rutilante veemenza fatta di pochi accordi, cassa in quattro, basso che ti rimbalza nello stomaco (memorabile quello di “Masticati”), strofe dritte ed immancabili ritornelli – sì: i cari, vecchi ri-tor-nel-li – anthemici. I Razzi Totali da Trento sono in quattro, ed esistono da vent’anni, questo è soltanto il loro quarto album di studio, ma poco conta: non inventano nulla, non pretendono nulla, non scoprono nulla. “La città del niente”, dieci anni e più trascorsi da “Il cambio di stagione”, rappresenta uno di quei rari casi nei quali conoscere esattamente cosa ti riserverà il prossimo brano può rivelarsi addirittura confortevole, spiacerebbe anzi che così non fosse: ventuno tracce di pura urgenza sgranate in quarantatre minuti di sincero primitivismo, mai rozzo nè volgare, a suo modo quasi elegante nell’ennesima declinazione di un verbo atavico, formano la filigrana di un lavoro che rende sterile ed inservibile qualsiasi citazione di merito inerente a questo o quel pezzo, ad un verso in particolare, ad un’idea o ad una visione meno che social del mondo che vorresti e che mai è. In un turbine frenetico di pacata invettiva e ferita disillusione vanno in scena l’accenno di ballad di “La via della malinconia” e la torrida essenzialità garage di “Notte di gloria”, la micidiale sassata de “Il re della città” e l’accenno Sex Pistols di “Speranze ed eroi” che gigioneggia con l’anarchia prima di infilarsi in un’accelerazione assassina degna del fu Lemmy, lasciando al decadente piglio militaresco di “Via da chi?” ed alla marcia in minore della conclusiva “Quello che resta” l’onere di un commiato dimesso e amaro. Disco di sconcertante, disarmante franchezza, “La città del niente” segna il fiero ritorno in auge di una band immarcescibile rimasta rabbiosamente viva a covare sotto la cenere del tempo: poco importa se non cambieranno la musica e non cambieremo il mondo, nè loro nè io che ho ascoltato per trenta volte di fila “La ragazza insolita”, rigorosamente in giacca e cravatta. (Manuel Maverna)