STING "The dream of the blue turtles"
(1985 )
Vent’anni fa Gordon Matthew Sumner, noto come Sting, decise di entrare “in diplomazia, lasciando a casa la Polizia”. Così cantava tale Antonello Venditti, uno dei meno qualificati a criticare le svolte degli altri, visto quello che hanno prodotto le sue. La frecciata però era ben diretta, e soprattutto il termine “diplomazia” era azzeccato. Fin da questo suo primo lavoro Sting avrebbe continuamente cercato un compromesso tra le sue nobili passioni (jazz e classica) e il gusto di un pubblico più ampio possibile, con veri e propri prodigi di equilibrismo, degni di un diplomatico, per soddisfare il mercato senza sputtanarsi troppo, cosa che in questo primo album gli riuscì in pieno, a differenza che nei successivi, con l’eccezione del tetro e riflessivo “The Soul Cages”. Sting non è mai stato amato dai critici: la sua eleganza, la tendenza a smussare gli angoli, fanno a cazzotti con l’”estetica del brutto” seguita da molti critici, che preferiscono rumori fastidiosi ma spontanei ad una musica gradevole ma artefatta. Anche come personaggio ha fatto poco per essere simpatico: sono ormai leggendarie le spacconate su prestazioni erotiche di 5 – 7 ore (e chi se ne frega?), meno noto il suo paragonarsi a Beethoven per via un problema di udito. Tutto ciò però non deve influenzare il giudizio su “The Dream Of The Blue Turtles”, suonato divinamente insieme a musicisti come Brandford Marsalis (sax), Kenny Kirkland (tastiere), Darryl Jones (basso: ma Sting non era un bassista?) e Omar Hakim (batteria). Disco molto vario, qualità inevitabile per incontrare il favore di più tipi di pubblico. Per quelli di bocca buona, due tormentoni da classifica: un rock potente e ritmato, “If You Love Somebody, Set Them Free”, quindi un insulso reggaettino da spiaggia come “Love Is The Seventh Wave”. Per classicomani e melomani, ecco del buon Prokofiev nel tema della strappalacrime “Russians”, e qui va dato atto all’onesto Sting di aver dichiarato nelle note la fonte classica, cosa che ben pochi fanno (per esempio Santana strapazza per un intero brano la Terza di Brahms senza degnarsi di citarlo). Rimaniamo in zona Prokofiev con “Children’s Crusade”, influenzata dal clima da incubo notturno del Secondo Concerto per pianoforte del compositore russo, ma senza temi presi in prestito. Stupendo il crescendo jazzistico posto a metà del brano, con Marsalis che furoreggia. Nostalgici dei Police: per voi c’è una versione accelerata e nevrotica di “Shadows In The Rain”, che grazie alle raffiche pianistiche di Kirkland e al sax isterico di Marsalis riesce a mettere in ombra l’originale. Un po’ d’impegno ? Ma sì, da colui che canta per l’Amazzonia (e per la pecunia) ce lo aspettiamo. Eccoci quindi nelle viscere della terra a condividere la vita atroce delle miniere inglesi grazie ad un sinistro reggae zoppo, “We Work The Black Seam”. Poi, dato che abbiamo dei bei jazzisti a disposizione, è bene sfruttarli un pochino, e nulla è più chic che associare dei versi di Shakespeare ad un jazz un po’ mosso come “Consider Me Gone”, con buona pace dei critici. Un po’ di sana improvvisazione jazz? Va bene, ma solo un minuto, altrimenti il disco potrebbe vendere un po’ meno: voilà “The Dream Of The Blue Turtles”. Patiti del musical e dei crooners: immergetevi in “Moon Over Bourbon Street”, con Sting in versione lupo mannaro, capace di ricreare atmosfere gershwiniane senza nemmeno saccheggiare Gershwin, cosa che viene rimandata al disco successivo (“Sister Moon”). Infine un altro sguardo indietro, ai Police: “Fortress Around Your Heart” non avrebbe sfigurato nella seconda facciata di “Synchronicity”, quella totalmente stinghiana. Eppure hai voglia di descriverlo con ironia, ma questo disco così ruffiano, fatto apposta per accontentare tutti, dopo 20 anni si ascolta ancora molto volentieri. Un motivo ci deve pur essere: forse la classe, che (dicono) non è acqua. (Luca "Grasshopper" Lapini)