recensioni dischi
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OvO  "Creatura"
   (2016 )

Non è tutto rock’n’roll la musica del diavolo, non è l’unica, non è la sola. Se Satana esiste ed ascolta qualcosa, probabile che siano gli OvO. Il grande Bruno Dorella – barbuto, corpulento, incombente – e l’esile Stefania Pedretti – minuto fascio di nervi - da inizio secolo fungono da medium tra questo ed altri mondi, tra questo ed altri inferni, tra uno ed altri modi di chiamare musica ciò che musica talvolta non è. E’ espressionismo efferato e barbarico il loro, una trivella che scava uno, nessuno, centomila crani noncurante dell’effetto che fa, cieco abbrutimento fatto disinteresse per masse e mode, senza limiti né vincoli di sorta. Un progetto svincolato dall’idea stessa di rabbia o furore, rancore o livore; una veemenza truce e sozza che vive di scorie e detriti, una non-musica capace di sancire il decadentismo del rock in un ammorbante olezzo che sa di morte, dolore, sofferenza viscerale, rifiuto aprioristico del bello, un gran teatro amaro figlio del Ferretti kitsch di “Socialismo e barbarie” come della purulenta morbosità dei Carcass. Ma gli OvO - due persone e milioni di voci dagli abissi - sono ben oltre, una inclassificabile marcescenza che si pasce di verminosa aberrazione non per piacere ma per necessità. Tutto muta fuorché l’anima, e mutano anche gli OvO in questo nuovo squarcio d’agonia chiamato “Creatura” (pubblicato su Dischi Bervisti/Dio Drone), che non lesina intensità e disgusto, ma apre spiragli – non porte – a contaminazioni già esplorate su “Abisso”, qui rivoltate come calzini malconci in un cantilenare sordido e strisciante, abituale ostentazione di rigurgiti belluini e ferina brutalità a braccetto con brandelli di elettronica deteriorata, buttata ai porci nel consueto marasma di chitarrismo deviato. Sa di sporco, “Creatura”, spreme malevolenza come pus da una ferita, ma concede all’impiccato un refolo d’aria, benché fetida: la suppurazione tracima dall’incipit catacombale di “Satanam” come dalla tenebra di “Eternal freak” che sa addirittura di Bauhaus, poco rileva in quale idioma – reale, presunto, un esperanto storto ritorto e contorto – Stefania stia latrando, Cerbero tra i dannati, sgolata e demoniaca musa di nessuno, sacerdotessa di un culto pagano inciso in una memoria collettiva ancestrale e primitiva. Martella e si autocampiona Bruno, violentandosi, sublimandosi; delira Stefania nei sei minuti del sabba kraut allucinato di “Buco bianco”, mentre illusorie suggestioni curtisiane (sic!) agitano l’aura gotica della title-track; è un incubo l’accelerazione assassina di “Immondo”, si affida a strutture quasi lineari il monocorde pulsare simil-crampsiano di “Freakout”, poco prima che “March of the freaks” cali il sipario sul battito soffocante di un qualcosa che rasenta la forma-canzone, un rantolo ossessivamente dimesso che non chiede approvazione pur lambendo un’indesiderata accessibilità. Lontanissimo da “Vae victis”, distante da “Cor cordium”, “Creatura” è l’ennesima cesura erga omnes, la caparbia reiterazione di un canone eseguito di fronte ad un muro, opera che rappresenta forse il massimo possibile avvicinamento ad un uditorio che più non domanda loro nemmeno lo stupore, figurarsi la normalità. Poco importa: al primo bagliore di luce, tornerà la ninna-nanna luciferina di “Marie” a tormentare altre notti. E saranno notti terribili, in saecula saeculorum. (Manuel Maverna)